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Yohji Yamamoto, l’uomo che vive nel futuro

Letter to the Future è la mostra che 10 Corso Como ha appena inaugurato nella sua rinnovata galleria, la prima dedicata esclusivamente allo stilista dal 2012.

di Riccardo Conti

Yohji Yamamoto è stato apostrofato in molti modi: poetico, visionario, anticonformista e avanguardista. Un non-tradizionalista senza compromessi, è stato in prima linea nella rivoluzione giapponese della moda nei primi anni ’80, insieme a Rei Kawakubo e Issey Miyake, che hanno introdotto modi completamente nuovi di vestire, decostruendo gli ideali estetici pregressi. Per tutta la sua carriera e ancora oggi, ogni volta che le sue collezioni sfilano a Parigi, il pubblico della moda percepisce il lavoro di un autore che difende nel tempo una visione che proprio dalle tempistiche della moda sembra rifuggire, rivendicando la propria autonomia e continuando a creare bellezza e senso.

Non a caso si intitola Letter to the Future la mostra che 10 Corso Como ha appena inaugurato nella sua rinnovata galleria e che rappresenta, tra le altre cose, la prima mostra dedicata esclusivamente allo stilista dal 2012. Dopo mostre come Juste des vêtements (2005) al Musée de la Mode et du Textile di Parigi e la rivoluzionaria Dream Shop (2006) al MoMu di Anversa curata da Kaat Debo e Linda Loppa, questo nuovo capitolo espositivo raccoglie, come in un’unica installazione, pezzi contemporanei e d’archivio in un allestimento radicalmente semplice, senza alcun trucco scenografico o presenza al di fuori degli abiti, protagonisti assoluti con le loro forme, come spiega Alessio de’Navasques, curatore della mostra: «questo nuovo progetto mette in discussione le regole dell’esposizione di moda, rifiutando ogni forma di monumentalità dell’abito e cercando un rapporto attivo con il visitatore. Capi d’archivio di epoche e stagioni diverse dal 1986 al 2024 sono allestiti, senza artifici scenografici, su busti sartoriali, simili a quelli su cui hanno preso vita, definendo un percorso sul rapporto ambivalente di Yamamoto con il tempo in un flusso continuo di forme, asimmetrie e materiali».

Nato nel 1943 e perciò figlio della sconfitta giapponese, Yamamoto appartiene a quella generazione tormentata dalla vista delle rovine su cui il Giappone stava ricostruendo il suo futuro, crebbe con l’unico sostegno rappresentato dalla madre, una vedova di guerra, che lavorava sedici ore al giorno come sarta, la prima “donna in nero” nella sua vita, come racconta sempre de’Navasques nel testo che accompagna la mostra. La madre Fumi è stata una figura fondamentale nella definizione della sua identità creativa e nella fondazione dello stesso brand. Uno dei più poetici dei capi in mostra è proprio a lei direttamente ispirato e il visitatore sensibile potrà coglierne i sottili rimandi alla dimensione più umile della sartoria.

Dopo la laurea in legge nel 1966, Yamamoto cambiò radicalmente strada entrando nel mitico Bunka College of Fashion di Tokyo, dove studiò per due anni prima di vincere una borsa di studio che lo portò a continuare il suo percorso formativo a Parigi. Del resto, l’influenza della moda e della storia del costume europeo, più che quello giapponese, emerge come un tratto costante nelle sue creazioni, che, come evidente in molti esemplari in mostra, costituiscono attorno al vestito vere e proprie riflessioni sulla struttura storica del capo, proiettando quelle forme in una nuova timeline. Uno dei primi capi ad accogliere i visitatori è l’iconico cappotto con “faux cul” in seta rossa dell’inverno ’86-’87, la cui silhouette rielabora la storia del costume europeo e ritorna nuovamente nel lavoro dello stilista nella sua trasposizione futura, rappresentata da uno dei più rappresentativi look che sfilato lo scorso marzo a Parigi: un cappotto in lana grigia, la cui coda nera dialoga con il modello degli anni Ottanta.

Dopo l’esperienza parigina, Yamamoto ritornò nel 1970 in Giappone e fondò il proprio brand di prêt-à-porter con l’etichetta Y’s nel 1972. Nel 1977 debuttò invece con la sua prima collezione Y’s a Tokyo. La prima collezione di alta moda che presentò a Parigi nel 1981 stupì il pubblico e lo impose come uno dei principali protagonisti di quel fenomeno che fu poi definito anti-fashion, che vide i designer giapponesi e quelli di Anversa scrivere una nuova narrazione della moda, indicando una visione alternativa di bellezza. I capi di quella prima sfilata non erano né glamour né lusinghieri verso il corpo che li indossava, ma proprio per questo avevano il potere di liberare di preconcetti e cliché di ciò che si riteneva “alla moda”. Per esempio, le modelle di Yohji Yamamoto indossavano scarpe piatte e pratiche, in contrasto con gli stereotipi di femminilità dai tacchi alti. Anche per questo, chi iniziava a indossare i suoi abiti poteva ripensarsi come individuo in un tempo nuovo, eppure eterno.

Esemplari furono le parole uscite dalla penna di Michel Cressole, uno dei più attenti giornalisti e intellettuali del periodo che sulle pagine di Libération scrisse a proposito di Yamamoto: «Gli abiti che ci propone nel 1982 da indossare nei prossimi vent’anni sono infinitamente più realistici di quelli proposti da Courrèges e Cardin intorno al 1960 per l’anno 2000, che oggi appaiono vecchi quanto un film di fantascienza sovietico. I couturier francesi si sono aggrappati troppo a lungo all’idea che la couture, come la scienza, fosse la correzione di una lunga catena di errori. Gli stilisti giapponesi, d’altra parte, preparano le donne del pianeta Terra a decidere in un istante quali vestiti e accessori portare con sé quando hanno solo mezz’ora per fuggire».

Yohji Yamamoto, dal canto suo, non ha mai costruito su queste opposizioni tra Oriente e Occidente la sua narrazione; anzi, ne sono prova tangibile gli esemplari esposti. Ha sempre riconosciuto il suo debito con la storia della moda e, in particolare, con tutta l’archeologia della couture, rifiutandosi di identificarsi in termini delle sue origini, come affermò in un’intervista: «L’influenza giapponese? Semplicemente non mi interessa.»

Eppure è difficile non ravvisare nei sottili giri di stoffa con cui Yamamoto drappeggia i suoi corpi, nell’atemporalità delle sue creazioni e nella modestia e nella sobrietà dei suoi manichini, il precipitato di una tradizione particolare. Alcuni dei capi in mostra sono definiti da costruzioni apparentemente incomplete, imperfette a prima vista casuali. È lì che, in purezza, si trova più verosimilmente quel richiamo alla cultura profonda giapponese del wabi-sabi, che si manifesta nell’uso di materiali, come tessuti accuratamente consumati, e nelle texture che evocano anche solo con la vista una ricchissima esperienza tattile fatta di contrasti. Concetti come l’inaspettato, l’inatteso, che governano i principi dello zen sono reificati in capi asimmetrici, in strati voluminosi, colletti sbilanciati e orli irregolari, che prendono vita grazie al movimento dei corpi che li indossano.

Queste strane e potenti silhouette che impressionarono rapidamente il mondo della moda internazionale trovarono un vero e proprio primo consenso nel pubblico degli intellettuali: architetti, artisti e scrittori, furono loro i primi di fatto a corrispondere a quell’estetica urbana, cupa e insieme romantica, che il nero implacabile di Yamamoto ha sempre saputo riverberare.

È quel nero, del resto, parte “strutturale” della sua poetica, che se da un lato il nero divenne di moda negli anni ’80 come estroflessione di un certo esistenzialismo bagnato di suggestioni punk e no-wave, dall’altro nessuno come Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo (sua ex compagna) hanno contribuito a tradurre il total-black in nuova esperienza di sofisticata eleganza che diventa vero e proprio stile di vita. Coloro che, ancora oggi, seguono fedelmente questo modo di vestire vengono chiamati in Giappone Karasu-zoku, ossia “membri della tribù dei corvi”, e possiamo serenamente ricondurre proprio a Yamamoto la genesi di decine di brand del lusso e non, che hanno attinto a quell’immaginario, declinando nei modi più vari che spaziano da rivisitazioni del gotico urbano fino a uno streetwear spogliato di qualsiasi connotazione pop e ludica.

Ci si può perdere nei dettagli così come nel tempo, che accompagnano le creazioni di Yamamoto in Letter from the Future, e se alcune spiccano per notorietà come quello proveniente dalla famosa collezione Abiti da Sposa Primavera-Estate 1999, tutti quanti meritano di essere osservati girando attorno al manichino per apprezzarne la costruzione che attua sempre una trasformazione nella percezione del corpo, distante dalle idee occidentali di glamour definite da figure femminili aderenti, ma affidando al drappeggio il mascheramento del corpo, con indumenti non strutturati, dove il vuoto è parte fondamentale della forma, e dove il tessuto è sempre il vero punto di partenza.

Come spiegò egli stesso in un’intervista: «Comincio trovando il punto più pesante del tessuto. Questo punto verrà poi posizionato sulle clavicole; questo è il punto da cui tutti i miei vestiti cominciano; ciò che permette al materiale di rimanere vivo». Materiali morbidi diventano forme complesse stratificate e avvolgenti, mentre tessuti rigidi si trasformano in silhouette affilate e potenti che hanno il potere liberatorio di riscrivere la storia della moda. Nel 2006, la collezione intitolata Storia della terra dai dinosauri agli esseri umani ha rappresentato forse lo statement più radicale in questo senso, con proporzioni e remix di capi che incantarono il pubblico per la loro potenza espressiva e per la loro coerenza nel rivisitare la storia, immaginandola.

Leggendo le citazioni di Yohji Yamamoto che accompagnano i suoi capi in mostra, si ha la sensazione che questi frammenti provengano ormai da un’altra dimensione, forse assai distante da come oggi la moda è vissuta e rappresentata, che per alcuni potrebbe apparire persino nostalgica, ma che custodisce un ideale inalterato: la moda come un linguaggio autonomo, e rivoluzionario.