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Volonté, il cinema che si impossessa della vita

Il documentario Volonté. L’uomo dai mille volti ci mostra un attore talentuosissimo e perfezionista, politicamente impegnato, e adorato anche dai registi.

08 Ottobre 2024

Chi era Gian Maria Volonté? Chi si celava dietro le infinite maschere di un attore straordinario, amato, politicamente schierato, solitario, antidivo, eppure istrionico, impegnato, carismatico, insignito di tantissimi riconoscimenti tra cui un Leone d’Oro alla carriera? In Volonté. L’uomo dai mille volti, il docufilm scritto e diretto dal regista romano Francesco Zippel, le risposte sono molteplici e arricchiscono il quadro su un’artista che moltissimi critici, e al tempo stesso i suoi colleghi ed eredi, considerano tra i più grandi mai prodotti dal cinema italiano, e tra i pochissimi a racchiudere nel proprio percorso l’estrema coincidenza tra arte e vita vissuta.

In Vita di Michelangelo, miniserie Rai del 1964 firmata da Silviero Blasi, un barbuto Gian Maria Volonté nei panni di Michelangelo Buonarroti, trova nel copione una frase illuminante, rappresentativa dello spirito che l’ha accompagnato per tutta la sua carriera: «Se un artista cede alla corruzione, la sua opera cade con lui. Io non voglio rendermi complice del vizio che ci sommergerà tutti». Oggi, con il Rinascimento fiorentino che è morto e noi che non ce la passiamo troppo bene, tale dichiarazione di intenti potrebbe apparire un po’ demodé, eppure era profondamente vera. Tutta la carriera di Volonté, infatti, sin dagli inizi fino alle ultime interpretazioni, passando per il grande successo e i premi internazionali, è stata votata alla ricerca di una coerenza artistica, politica, civile e performativa.

Volonté, e a raccontarlo è sua figlia Giovanna, ricercava ossessivamente una totalità espressiva assoluta, una fortuna più unica che rara per la maggior parte degli artisti di ogni tempo (perfino Kubrick accettò di dirigere Spartacus per mettere fieno in cascina in vista dei nuovi film). Per l’attore milanese – anche e soprattutto dopo la notorietà ottenuta grazie a Sergio Leone che lo sceglie per ruoli riuscitissimi nei suoi Spaghetti western di successo Per un pugno di dollari (1964) e Per qualche dollaro in più (1965) – l’approccio olistico tra vita e arte è l’unico possibile. E Zippel ricerca meticolosamente l’abisso dell’uomo, lo insegue con il proprio sguardo carico di sincera ammirazione, lo rivela come obiettivo filmico. Ma qual è in Volonté la matrice, la causa scatenante di tale vibrante aspirazione? Il suo rapporto con il padre, e di conseguenza, con l’autorità. Con il potere. Un complesso edipico sui generis. «Una volta, da bambino, vide suo padre spingere un anziano, e quella scena lo ha segnato per sempre», svela Angelica Ippolito, figlioccia di Eduardo De Filippo con cui Volonté convisse nella seconda parte della sua vita, in un passaggio cruciale del film.

Volonté diviene insofferente a ogni ingiustizia, a ogni sopruso, a ogni disparità, e come era tipico per intellettuali e artisti in quegli anni si iscrive al Partito Comunista fino al 1977, per poi uscirne a causa dell’incompatibilità tra la sua coscienza critica da intellettuale e la vocazione partitica all’organicità, al restare a tutti i costi fedeli alla linea e alle gerarchie. È chiaro, tuttavia, che non è certo per appartenenza politica che Volonté ha avuto successo. Talento e bravura in lui sono immensi. Nel cinema politico di Montaldo (Sacco e Vanzetti, 1971), Rosi (Uomini contro, 1970, Il Caso Mattei, 1972, Lucky Luciano, 1973), Petri (A ciascuno il suo, 1967, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970, La classe operaia va in paradiso, 1971, Todo Modo, 1976) e Bellocchio (Sbatti il mostro in prima pagina, 1972) offre interpretazioni indimenticabili. La sua cifra è così originale che sembra unire la sua formazione “tradizionale” alla scuola del teatro italiano di Orazio Costa, all’innovazione delle star internazionali provenienti dall’Actors Studio di New York, come De Niro e Pacino.

I registi lo amano. Impone una regia, dicono, è praticamente un coautore. Ha un carisma tale che imprime una linea a ogni film. I colleghi lo studiano ancora oggi, e Zippel non ha paura di entrare nel tecnico, lasciando che Volonté stesso attraverso l’archivio, e poi epigoni del presente come Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Fabrizio Gifuni e Valeria Golino, descrivano le specificità di un metodo che ha fatto scuola. Volonté sceglie solo personaggi che ama e vi entra totalmente, anche nel tempo libero. Chi vive con lui si adegua, deve recitare una parte. Si prepara con dovizia certosina raccogliendo materiali, stabilendo connessioni con la drammaturgia, scegliendo di lavorare sulla lingua e sui dialetti in chiave antinaturalistica, cercando una totale immersività che anzi, gli rende difficile uscire dai personaggi che interpreta.

Volonté tuttavia, e Zippel li va a cercare, ha anche dei lati oscuri, come un perfezionismo estremo che riversava nella passione per la vela, e il bisogno di confronto perenne con i grandi temi della vita, tra cui il solito ed enigmatico rapporto con il potere e con la militanza, e con un fratello al tempo stesso uguale e diverso da lui, morto suicida. «Volonté sceglie di non chiudere le sue ferite», dice di lui il critico e suo amico Fabio Ferzetti, in uno dei passaggi più toccanti del film. Uno come Volonté, sembra un finale scritto, non poteva che morire sul set. Accade nel 1994, durante le riprese de Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. In una delle scene poi tagliate, in compagnia di Harvey Keitel – Volontè sarà poi sostituito da Erland Josephson, attore amato da Ingmar Bergman e Andrej Tarkovskij – Volonté cammina in uno scenario di guerra a Sarajevo e riferendosi a una cineteca da salvare e di conseguenza al cinema dice: «Era tutta la mia vita». Ancora una volta, una frase rivelatoria. Set e verità dell’uomo coincidono, come nei destini dei più grandi, ineluttabili.

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