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Jonathan Anderson è il nuovo Direttore creativo di Dior Men Debutterà a giugno, a Parigi, durante la settimana di moda maschile.
«Non siamo mai stati così vicini alla scoperta della vita su un altro pianeta» Lo ha detto il professor Nikku Madhusudhan, responsabile della ricerca dell'Università di Cambridge che ha trovato molecole compatibili con la vita sull'esopianeta K2-18b.
La locandina di Eddington, il nuovo film di Ari Aster, è un’opera d’arte, letteralmente Il regista presenterà il film in anteprima mondiale al prossimo Festival di Cannes, in programma dal 13 al 24 maggio.

Dove sono finiti i Verdi italiani?

Mentre in Francia e in Germania sono il movimento politico più promettente, in Italia non hanno mai sfondato. Anzi, sono "decresciuti" fino a scomparire.

06 Luglio 2020

Visto dall’Italia, il successo di Europe Écologie Les Verts alle amministrative francesi fa sospirare: perché i nostri Verdi sono così irrilevanti in un’epoca in cui l’ecologia è il più importante dei temi? In Francia hanno espresso i sindaci a Marsiglia, Lione, Bordeaux e Strasburgo, da noi sono fuori dal Parlamento da un decennio. «Il paradosso italiano è che c’è un grande movimento ecologista di base, un forte interesse delle imprese e dei cittadini, ma un nano dal punto di vista della rappresentanza politica», mi dice Antonio Nicoletti, responsabile Aree protette di Legambiente, uno dei tanti protagonisti dell’ecologismo in Italia a dire: «Mai votato Verdi, mai li voterò». Cosa è andato storto? Come hanno fatto a perdere il dominio sulle loro idee, sul posizionamento politico e perfino sul colore, diventato verde Padania e Lega?

«L’Italia è stato uno dei primi Paesi occidentali dove i Verdi arrivano  in Parlamento», ricostruisce Roberto Della Seta, storico, ex senatore Pd (è stato responsabile ambiente alla fondazione, ora ne è uscito) e autore di La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista. Era il 1987, il drappello di 14 parlamentari arrivò alla Camera in bicicletta. Giovani, allegri e ottimisti, convinti (come tanti dopo di loro) di essere all’inizio di una rivoluzione. Era un momento di cambiamenti disordinati (entrano in Parlamento Ilona Staller, Gino Paoli, Umberto Bossi), ma la prima tappa della biciclettata dei Verdi finisce con un trionfo: pochi mesi dopo l’Italia dice «sì» allo stop all’energia nucleare.

I Verdi sono figli eterogenei del Novecento italiano: confluiscono radicali (è Pannella a donare il marchio Sole che ride, inventato dagli anti-nuclearisti scandinavi), socialisti, socialdemocratici, sinistra extra-parlamentare. «In Italia c’erano due grandi chiese, entrambe diffidenti sull’ambientalismo: la Dc e il Pci». Gianluigi Della Valentina è un altro storico che si è posto spesso la questione: perché gli italiani sono strenui difensori dell’ambiente sul territorio ma non alle urne? «Per i comunisti era una delle tante sovrastrutture, per i cattolici un modo per mettere in discussione la perfezione della creazione. Erano i due terzi dell’Italia politica a pensarla così, i Verdi sono stati percepiti come un partito monotematico, come i Pensionati, una nicchia di categoria». Casualmente, o forse no, il primo senatore verde in Italia, Piergiorgio Sirtori, sarebbe poi entrato nella Lega Casalinghe-Pensionati, la prima di un’infinita Spoon River di scissioni, defezioni, frammentazioni.

Quest’anno si celebrano due trentennali. Il primo è politico: nel 1990, a Castrocaro, le due componenti della galassia ambientalista (Federazione Liste Verdi e Verdi Arcobaleno) si fondono nel soggetto politico attuale. La seconda è culturale: la prima sconfitta dei Verdi, i referendum sull’abolizione della caccia e dell’uso dei pesticidi, il primo a fallire per mancato raggiungimento del quorum. Era un disastro che anticipava le difficoltà che sarebbero venute: il disordine nella scelta dei temi, l’incapacità di capire la società e un talento sopraffino nel farsi nemici. Contro i giovanissimi Verdi fu un inferno politico: cacciatori comunisti, cacciatori democristiani, agricoltori, produttori di armi. «Fu un errore di opportunità», ha di recente ammesso Marco Boato, uno dei padri del movimento, in un video su Facebook.

Nei quindici anni successivi i Verdi hanno fatto parte a pieno titolo della politica italiana, hanno ottenuto risultati (la legge sui parchi nazionali, l’ecobonus), sostenuto i governi dell’Ulivo e dell’Unione, avuto ministri, eppure non sono mai riusciti a schiodarsi dalla dimensione del 2 per cento, 3 per cento. Tornano spesso due questioni: la mancanza di una classe dirigente adeguata e la legge elettorale penalizzante. Sono vere in parte: i Verdi hanno avuto personaggi di rilevanza nazionale (Rutelli, Manconi, Ronchi, Francescato) e il maggioritario ha permesso a un partito che non cresceva di avere potere e ministri. Una spiegazione più interessante viene da una delle anime del movimento, il sociologo Gianfranco Bettin (ex candidato sindaco a Venezia, ex deputato, infinite battaglie sul territorio). «I Verdi hanno confuso gli applausi in assemblea con i voti. In Veneto i cittadini li hanno usati per specifiche lotte, senza mettere in discussione i loro modelli di vita, come gli operai che votano Lega ma sono iscritti alla Cgil». E perché, Bettin? «Perché si sono sempre sentiti grilli parlanti, depositari della verità e in quanto tali esentati dal faticoso lavoro di convincere le persone. Bravi a costruire un messaggio, incapaci di creare le relazioni per radicarlo».

E così arriviamo all’esplosione del paradosso: negli anni in cui la lotta ai cambiamenti climatici si impone come una questione esistenziale oltre che politica, nell’epoca di Al Gore e Greta Thunberg, i Verdi spariscono dalla politica italiana. Nell’anno degli accordi di Parigi eleggono portvoce per acclamazione (98 per cento) Giobbe Covatta. Mentre 5 Stelle e Pd si appropriano dei loro temi (con risultati – diciamo – incerti), loro si diluiscono in accordi sempre più perdenti (Rivoluzione Civile di Ingroia, Possibile di Civati). Elena Grandi è oggi uno dei due portavoce nazionali, al telefono ammette: «Veniamo da un decennio difficile, una crisi politica e di immagine, abbiamo rischiato di non esistere più, gli errori che abbiamo commesso vengono anche da lì». A ottobre era prevista l’ennesima costituente ecologista, rinviata causa CoVid-19 all’anno prossimo. Con i Fridays for Future ci parlate? «Proviamo a dialogare con giovani e anziani, senza discriminazioni. Ai ragazzi vogliamo mostrare il potenziale trentennale di questa storia, organizziamo webinar, facciamo raccontare su Facebook a Marco Boato la nostra epopea». (Ho visto i video, durano più di un’ora ciascuno, sono pieni di aneddoti e minuzie della prima Repubblica, per me sono appassionanti, per un adolescente non so). «Il Movimento 5 Stelle ci ha danneggiato, ma sull’ambiente ha perso ogni credibilità. Noi siamo pronti a giocare la partita di ritorno».

L’ottimismo è da rispettare, ma la realtà è che tra i partiti ecologisti in Europa e in Italia c’è una voragine. «C’è stata un’obiettiva difficoltà a rappresentare l’ambientalismo come un discorso di sviluppo, di progresso, di benessere. In Italia si sono lasciati imprigionare da un modello economico di rinunce. È un problema di tutti gli ambientalisti, ma i nostri non lo hanno mai superato», è il parere di Della Seta. In ogni conversazione che ho avuto per questo articolo è spuntato fuori il nome di Alexander Langer, uno dei fondatori dell’ecologismo in Italia, scomparso venticinque anni fa. «Sa cosa diceva? Che l’ambientalismo sarà una vera forza di cambiamento quando il modello che propone sarà socialmente desiderabile. I Verdi non ci sono mai riusciti, non ci riusciranno e rischiano di fare da tappo a chi vuole provarci. L’ambientalismo politico italiano non può essere rappresentato da questa classe di reduci».

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