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La locandina di Eddington, il nuovo film di Ari Aster, è un’opera d’arte, letteralmente Il regista presenterà il film in anteprima mondiale al prossimo Festival di Cannes, in programma dal 13 al 24 maggio.

Varsavia, o cara / Pt. 3

Cronaca semiseria e aperiodica degli Europei di calcio polacchi e ucraini. Terza puntata

26 Giugno 2012

Varsavia, e non Cracovia o Kiev, per le dichiarazioni pre-Europei di Gianluigi Buffon, per il quale un torneo soddisfacente porterebbe gli azzurri (almeno) in semifinale. Essendo stata l’Italia situata nel Gruppo C, la suddetta semifinale verrà giocata nella capitale polacca il 28 giugno. “Varsavia o Cara” è una cronaca aperiodica (e, come da titolo, semiseria) di quello che si è visto fin’ora durante i Campionati Europei di calcio.
Qui la prima puntata
Qui la seconda puntata

Questa storia degli scandali calcistici rischia di diventare un affare serio: non più simpatica coincidenza, non più casualità con cui comporre ironiche battute da bar o da giornale. Non ce l’aspettavamo che l’Italia arrivasse in semifinale degli Europei con questo affetto, questo calore, questa partecipazione. Doveva essere l’Europeo del nostro scontento, degli avvisi di garanzie, delle ricevitorie sospette, delle pugnalate al cuore, del romanticismo perduto nelle aule di tribunale e nelle custodie cautelari. Quelli che “il biscotto ce lo meritiamo”, che “per passare il girone bisogna per prima cosa vincere”, che “ma perché togli Balotelli andava tolto Cassano”.

Ci ritroviamo ancora, per l’undicesima volta dal 1934, in semifinale, con gli occhi del mondo addosso per la portata metaforica della sfida da affrontare. Siamo rimasti in tre a circondare il Moloch, con la Grecia già sacrificata da quattro reti di passivo. Euro 2012 è sempre più allegoria, sempre meno semplice gioco. Può diventare il campo di battaglia per la rivincita degli sconfitti economici, o può tramutarsi nell’attestato spietato della supremazia teutonica. Ci proveremo noi, per primi, che non ci credevamo nemmeno un po’. E torna, dopo l’italianissimo revisionismo 2010, il bel ricordo di quella nazionale di sei anni fa, quell’entusiasmo per aver sconfitto i rivali di sempre (che non sono i francesi, di cui siamo soltanto cugini. Cugini litigiosi, ma pur sempre cugini), come torna quella parabola disegnata da Grosso prima e Del Piero dopo a Dortmund, dipinta ieri da Andrea Pirlo in faccia a Joe Hart, sberleffo di questi “lazy italians” alla spocchia pallonara del popolo inventore del calcio: «Il genio italiano ha usato nel modo più fine ciò che ha preso a prestito», per citare Nietzsche.

È stata una vittoria da italiani, teatrale e metaforica anche questa, con tanto cuore e pochissima concretezza, e colpo di genio finale, quello che non ti aspetti. La rabbia inglese nel missile di Ashley Young che impatta la traversa, la pigrizia nostrana nel ricamo del centrocampista bianconero, che ci mette tanto, quasi troppo a terminare la discesa e addormentarsi in rete.

Si sapeva che gli inglesi non fossero la squadra che credevano di essere nel 2010 (o nel 2006, nel 2002, nel 1998, 1996, eccetera), ma la pochezza degli undici di Hodgson fa quasi scalpore. Con Gerrard fantasma del meraviglioso giocatore che fu, Rooney meno incisivo di Ibrahimovic nelle cosiddette “partite che contano”, Welbeck ancora acerbo e Milner completamente inadatto (per non parlare della panchina), i Tre Leoni non hanno fatto una figura migliore di quella della Grecia o dell’Irlanda. Come titolava Time poche settimane fa, “la squadra più deludente del mondo” non ha smentito si è fatta portare a spasso per centoventi minuti, leoni divenuti gattini o peggio, troppo vecchi e bolliti per ruggire ancora. Nemmeno una polemica sui tabloid del giorno dopo, nemmeno un attacco anti-italiano, nemmeno una scorrettezza su scommesse e affini. Albione ha perso la verve, la speranza, la pazienza.

Si è già scritto, la scorsa settimana su questa stessa rubrica, dell’ingiustificato abuso che si è fatto dei paragoni extracalcistici sulla sfida Grecia – Germania, commissariati contro commissari. Ora tocca a noi, a noi in prima persona, e i cortocircuiti economici tornano prepotenti. E pienamente giustificati anzi, ché se dobbiamo rivendicare un po’ di italianità, allora è cosa buona e giusta anche la contraddizione spudorata, la sfacciata incoerenza. Già sabato, alla vigilia di Inghilterra – Italia, ne scriveva Stefano Di Michele sul Foglio: «Sempre meglio la grattachecca sul Lungotevere che sistemare il fanalino di dietro della nuova Golf», in un articolo in cui “all’iperattività tedesca” veniva orgogliosamente contrapposta “la superiorità della nostra lentezza”. E però la lentezza se l’è presa la nazionale di Loew, che avrà, in vista di giovedì, 48 ore di riposo in più rispetto agli Azzurri (eccellente argomento di polemica in caso di sconfitta. Convenirne pienamente).

La passione e la sofferenza di un popolo unito intorno a un campo verde ha fatto anche passare in secondo piano i virtuosismi linguistici di un Gentili ispiratissimo: Danny Welbeck è diventato Welback, Gerrard, francesizzato, si è trasformato in Jeràrd, Scott Parker rinominato Joe, Cesare Prandelli detto (tra amici, si capisce) Mario. E ancora, Nocerino che si pluralizza e diventa, ubiquamente, Nocerini, Federico Balzaretti anche conosciuto come Andrea, e i mancini chiamati con un po’ di superstizione e doppi sensi “sinistri”. Da segnalare poi, più che la prestazione vocale degli inglesi, il tentativo di due tifosi di deconcentrare Diamanti dalla realizzazione del rigore decisivo: più che i genitali mostrati orgogliosamente, è la divisa ospedaliera di Joe Hart che ha rischiato di affossare l’impresa dell’azzurro (qui, proprio sopra la bandiera italiana con la scritta Lucca). Un’intera nazione immaginariamente appesa al pene di un solo uomo.

Alla fine, insperatamente, si va a Varsavia, il terminale di questa rubrica, l’eldorado indicato da Buffon prima del torneo, l’obiettivo che non può più bastare. Perché comunque vada non sarà un successo: bisogna trionfare a tutti i costi, o sarà solo un’altra sconfitta, una che brucia più di altre.

(Ultima nota di colore: sta per finire – e che Dio ce ne scampi e liberi per il futuro – la follia degli animali esperti di pronostici. Defunto il polpo Paul, l’Inghilterra aveva reclutato il lama Nicholas [qui in azione prima di Bayern Monaco – Chelsea], l’Ucraina il maiale Funtik, la Germania la mucca Yvonne, già celebre per essere fuggita da un macello bavarese. I francesi hanno fatto di meglio, scegliendo la pornostar Virginie Caprice, che affida le previsioni a un pennarello e ai suoi seni. Non molto originale, ma certo preferibile a un suino)

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