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Politici, giornalisti e lettori: basta tweet

Perché le foto degli articoli e degli editoriali messe a disposizione sui social possono diventare un problema per i giornali e indebolire il discorso pubblico.

19 Agosto 2019

Ogni giorno politici, giornalisti e lettori fotografano con lo smartphone le interviste, gli articoli e gli editoriali ideati e scritti da una complessa macchina editoriale volta a confezionare un giornale, non importa se di carta o digitale, e poi le mettono a disposizione dei propri contatti sui social network. Tutto molto bello ed egalitario, perché le news non sono un prodotto elitario ed è giusto che le informazioni raggiungano anche chi non compra un quotidiano o non si abbona al servizio premium di un sito. Ma se si aggiungono le chat su Whatsapp e su Telegram con i file pdf integrali di tutti i giornali e, a queste, anche la riproducibilità delle rassegne stampa, cioè i servizi di selezione degli articoli più importanti che le istituzioni e le grandi aziende offrono ogni giorno ai loro dipendenti e costoro, a loro volta, ai propri contatti social, si capisce perché l’industria editoriale sia a corto di lettori, di consumatori e di clienti disposti a pagare per informarsi.

Se un’azienda impiega due o tre persone – più i costi della stampa e della distribuzione del manufatto cartaceo o dei coders e dei server necessari alla messa online – per produrre un articolo che poi viene fotografato e condiviso gratuitamente sul web, e magari quelle due o tre persone, legate ex articolo 1 al contratto nazionale giornalistico che prevede l’obbligo di rispettare l’esclusiva, trascorrono buona parte del loro tempo a dare notizie e a commentarle su Twitter, cioè su una piattaforma concorrente rispetto al giornale di cui sono dipendenti, la spirale negativa diventa ancora più difficile da invertire.

Le informazioni girano, i narcisi dei social conquistano seguito e acquisiscono status, i compilatori delle rassegne stampa vendono i loro servizi multitestata, le piattaforme tecnologiche aumentano traffico e incamerano dati per migliorare la profilazione dell’utente che gli investitori pubblicitari raggiungono più agevolmente disinvestendo dai media tradizionali per concentrarsi sui social, ma a perderci non sono solo gli imprenditori delle notizie e di conseguenza i loro dipendenti, entrambi costretti a ridimensionare le operazioni editoriali e quindi a tagliare i costi per le inchieste, per gli uffici di corrispondenza, per gli approfondimenti e per la qualità del prodotto. Il problema è che a uscirne indebolito è il discorso pubblico, senza il quale non ci può essere un’opinione pubblica informata e formata sui fatti e quindi nemmeno una società adulta e una democrazia compiuta.

Non ci sono soluzioni semplici, e manca qualsiasi tipo di regolamentazione delle piattaforme digitali, ma qualcosina di buon senso si potrebbe fare. Twitter e Facebook sono di fatto i più diffusi, ricchi e autorevoli editori del mondo, perché offrono in anteprima le notizie riportate dai più celebrati giornalisti e i commenti delle migliori firme del pianeta su qualsiasi argomento possibile, senza per questo sborsare un centesimo per i contenuti ricevuti gratuitamente dai giornalisti e dalle grandi firme, limitandosi a stuzzicare la loro vanagloria e lasciando pagare il conto agli editori tradizionali che sono sempre più in difficoltà proprio perché i loro dipendenti contribuiscono a rendere inutile il business tradizionale dell’informazione.

I giornali potrebbero concordare con gli intervistati che no, l’intervista non può essere fotografata sui social e neppure ricopiata sui siti personali, anche perché per diffondere il loro verbo, oltre alla copia cartacea, sono più che sufficienti i link al sito del giornale stesso. Gli editori potrebbero ridisegnare il concetto di esclusiva del contratto collettivo nazionale dei giornalisti, estendendolo anche ai pensierini sui social, perché se sei dipendente di un’azienda che produce pensiero non puoi esprimerlo a maggior beneficio del maggior concorrente del tuo datore di lavoro. Andrebbero regolamentate, e monetizzate, anche le rassegne stampa, e vietata la riproduzione degli articoli su cui lucrano alcuni siti, perché la copertura integrale dei contenuti va ben oltre il sacrosanto diritto di cronaca. Naturalmente, non si farà nulla di tutto questo, ma continueremo a fasciarci la testa sul pericolo delle fake news, sulla degenerazione di una società che non tiene più conto dei dati di fatto e sulla crisi della democrazia.

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