Cultura | Stati Uniti

Le affinità elettive tra Donald Trump e i rapper

Prima apprezzato per il suo status di tycoon e la fama di uomo che si è fatto da sé, dopo l'attentato diversi rapper lo considerano un vero e proprio gangsta, degno del loro sostegno politico.

Pochi minuti dopo l’attentato fallito a Donald Trump, sui social media si è diffuso un meme che ritrae l’ex Presidente nei panni di 50 Cent, nell’iconica copertina del disco Get Rich Or Die Tryn’. Quell’album, uscito nel 2003, è il primo ufficiale nella carriera del rapper newyorkese e racconta, nei dettagli, la sua incredibile parabola di vita. 50 Cent, alias Curtis Jackson, è nato nel Queens. Sua madre Sabrina muore quando ha otto anni, lui cresce con i nonni. Inizia a spacciare crack all’età di 12 anni e a 19 viene arrestato e condannato a tre anni di detenzione. Uscito di carcere inizia rappare. La sua carriera sembra in ascesa ma il 24 marzo del 2000 subisce una aggressione con arma da fuoco. I medici lo danno per morto, è stato colpito da nove proiettili, di cui alcuni al volto. Sparisce dalla scena, fa diverse operazioni, la sua voce cambia per sempre. Nel 2001 ritorna a fare musica e diventa uno dei rapper più influenti della storia del genere.

Donald Trump è, invece, il rampollo di una famiglia di costruttori newyorkesi. È cresciuto a Manhattan, nella ricchezza. Ha studiato nella prestigiosa Fordham University per poi ereditare l’impero di famiglia, rischiando più volte di farlo crollare. In cerca di fama, inizia fare televisione, ottenendo un enorme successo. Successo che, infine, capitalizza candidandosi alle elezioni del 2016. Ecco, leggendo queste due biografie verrebbe da pensare che l’unica cosa che unisce 50 Cent a Donald Trump sia l’essere scampato ad un tentato omicidio. Eppure, sbaglieremmo a pensare che sia tutto qui. La figura di Tycoon è da sempre associato al rap, ben prima dell’attentato di sabato scorso.

Già nel dicembre 1999, sulla rivista di settore Vibe Magazine, la giornalista Nancy Jo Sales fa un ritratto del rapporto controverso tra il rap e Donald Trump, a partire dalla sua presenza alla festa di compleanno di Puff Daddy. Tra superstar del rap e spogliarelliste, nel locale Cipriani di New York, c’è anche il futuro Presidente, che si vanta con l’autrice di aver introdotto il festeggiato nell’alta società degli Hampton. «”Puff Daddy è un bravo ragazzo”, dice Trump, mentre una sua guardia del corpo gli segnala di avergli trovato un posto libero. “Sean mi ha detto di volermi seduto a fiano a lui”, gli risponde Trump, senza fretta», un dialogo che non facciamo fatica ad immaginare, conoscendo l’ego spropositato del protagonista. «Trump è rispettato dalle persone nell’hip hop perché non è un corporate guy. È un imprenditore che si è fatto da solo, è questa è una chiave della mentalità hip hop. Lo rispettano perché è un “fuck you hero”» – dice alla giornalista Nelson George, autore del libro Hip Hop America. Sul fatto che Trump sia un self-made man si potrebbe discutere a lungo, ma che questa sia la percezione che ha abilmente dato di sé all’esterno è innegabile.

Il tycoon ha incarnato per molti la figura dell’hustler, uno che, impegnandosi duramente, è riuscito ad arricchirsi nella società americana. Questa figura ricopre un ruolo centrale nella retorica del rap americano e non solo. Si potrebbe dire infatti che “l’essere hustler” sia stato il modo con cui la comunità nera ha reinterpretato l’idea del sogno americano. Ne ha parlato in maniera approfondita Lester Spence nel suo volume Knock the Hustle: Against the Neoliberal Turn in Black Politics. Questa mentalità, secondo l’autore, va attribuita alla svolta neoliberista che l’economia americana compie a partire dagli anni ’80. I tagli radicali al welfare state, con la conseguente scelta di relegare alla repressione e all’incarcerazione di massa la soluzione dei problemi sociali degli States, ha provocato una iperghettizzazione della comunità afroamericana. Una parte della comunità, impoverita e senza una guida politica valida, avrebbe accettato la brutalità del capitalismo americano sviluppando una propria filosofia per vivere all’interno di questo sistema. Gli afroamericani hanno quindi dovuto iniziare a pensare a sé stessi in termini imprenditoriali. Nasce così la figura dell’hustler e il concetto – quasi filosofico – di hustlin’. Il rap ha ricoperto un ruolo centrale nell’interpretare, diffondere e, in un certo senso, inflazionare questa idea e, infatti, sono tanti i rapper che hanno citato Trump come personaggio positivo nei loro brani.

Non importa, dunque, che il tycoon abbia costruito il suo impero edilizio su politiche discriminatorie – tanto da essere incriminato, già nel 1977, per aver applicato strategie razziste in ambito abitativo – o che nel 1989 abbia sovvenzionato una campagna mediatica in favore della pena di morte per i “Central Park Five”, un gruppo di ragazzi neri accusati ingiustamente di aver stuprato una ragazza a New York. Trump è un hustler, incarna alcuni dei valori di cui i rapper si fanno ambasciatori, e tanto basta per renderlo l’invitato perfetto per il party in occasione dei trent’anni di Puff Daddy. Sono tante le barre iconiche in cui il Tycoon viene citato come un modello a cui ispirarsi. “Rae’s a heavy generator / but yo, guess who’s the black Trump”, dice Raekwon nel brano “Incarcerated Scarfaces”. “Richest nigga in my hood, call me Donald Trump / The type of nigga to count my money while I smoke a blunt”, rappa, invece, Jeezy in “Trump” del 2001 con Birdman. Da quando, nel 2004, la Nbc mette in onda The Apprentice, la sua punchline “You are fired” diventa una frase ricorrente nei brani dei rapper. “You’re fired motherfucker” grida, Kanye West nel remix di “Flashing Lights” del 2007. Tre anni dopo, sempre West si paragona a Trump nel brano “So Appaled”: “I’m so appalled, Spalding ball / Balding Donald Trump taking dollars from y’all”. Attraverso la sua popolarità oltreoceano, perfino nel rap italiano, Trump è diventato oggetto di rime; la più nota è quella di Marracash nel brano “Xdvr Rmx”: “Trap come Trapattoni, sono Donald Trap”.

Non è un caso quindi che, dal 2016 in poi, non siano stati pochi i rapper che lo ha apertamente sostenuto. Resta storica, a modo suo, la foto che ritrae Kanye West con l’ex Presidente nello studio ovale, ma anche Lil Wayne e Kodak Black, per restare sui più noti, hanno fatto endorsment, nemmeno troppo velati, a Trump. Gli ultimi due hanno addirittura ricevuto la grazia presidenziale poco prima della fine del mandato. Grazie a questa scelta, Trump si è guadagnato il sostegno anche della nuova regina del rap americano Sexyy Red, che si è espressa così durante il podcast The Last Weekend: “Mi piace Trump. […] All’inizio non credevo che la gente lo sostenesse. Pensavano che fosse razzista e che dicesse str*nzate contro le donne. Ma una volta che ha iniziato a far uscire i neri dal carcere e a dare alla gente soldi gratis… […] Trump, ci manchi”. Negli ultimi mesi, il leader repubblicano ha quindi intensificato i suoi sforzi per associarsi ad un immaginario legato al rap, utilizzando stereotipi profondamente razzisti.

Un esempio emblematico è il mugshot di Trump, scattato dopo il suo arresto il 24 agosto scorso, che è diventato una risorsa preziosa di propaganda politica. Quell’immagine ha contribuito a costruire una narrazione in cui l’ex Presidente appare come vittima della giustizia, generando al contempo una miriade di meme e montaggi sui social media che lo ritraggono come un “gangsta”. Numerosi profili social raccolgono e promuovono questo materiale, oscillando tra ironia, reale sostegno a Trump e diffusione di notizie false di vario tipo. Tra questi, “Trap 4 Trump” si distingue per la grande quantità di post che glorificano il Tycoon, come fosse un rapper. Questo fenomeno ha avuto un impatto tangibile: molti hanno notato che alla convention dei Repubblicani afroamericani dello scorso febbraio, la maglietta con la foto segnaletica di Trump era l’articolo più indossato dai partecipanti. In questa ottica, non può stupire che l’essere sopravvissuto ad un tentato omicidio alimenti una idea distorta di Donald Trump, rendendolo una vittima con cui empatizzare o, peggio ancora, un modello in cui rispecchiarsi. Dopo l’attentato ai danni di Trump, le reazioni nel mondo del rap sono state delle più disparate, ma una delle più significative è stata quella di Jpeg Mafia: «Biden looks like a corpse & Trump looks like Tupac».

Non sorprende quindi che Trump stia guadagnano legittimità in tutte le minoranze, compresa quella nera. Stando ai sondaggi condotti dal New York Times in collaborazione con il Siena College, in sei Stati chiave per la vittoria finale il Partito Repubblicano otterrebbe circa il 22 per cento del voto della comunità afro-americana: nessun candidato repubblicano alle presidenziali, dall’epoca dei diritti civili in poi, ha ottenuto più del 20 per cento del voto nero. Una crescita modestissima, certo, ma pur sempre una crescita. Se continuerà, al momento non possiamo saperlo. Di certo sappiamo solo che Trump will never stop hustlin’.

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