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La nostra inesauribile passione per i triangoli amorosi
L’ultimo a coinvolgerci è il film Challengers, ma poco prima ci sono stati anche Passages, e Les Amours Imaginaires. Come sono cambiati negli anni, e cosa li caratterizza oggi?

Passano le rivoluzioni, la macchina a vapore, il cinema, i totalitarismi, le guerre e le paci, la globalizzazione, l’Undici settembre, le identity politics, il MeToo, e noi lettori, fruitori di feuilleton, di novelle, spettatori di film muti e di film 3D e anche di film alla moda, ci esaltiamo in fondo ancora per una cosa che ha attraversato tutte le epoche e che non cambia mai: un triangolo amoroso.
L’ultimo, in ordine temporale, è quello di Luca Guadagnino in Challengers. Due uomini e una donna, come composizione un grande classico, ma con il tocco queer tipico del regista siciliano tra i due maschi adolescenti che credono di desiderare l’algida Zendaya ma in realtà si desiderano molto anche a vicenda. Non è, la loro, una tensione sessuale che esclude però l’attrazione per l’amica: tengono insieme tutto senza problemi, in modo fluido, sia nel significato che la parola ha preso oggi, legata al genere, sia con riferimento all’agilità con cui passano dal baciarsi al baciarla senza stupirsi né scomporsi, come un serve and volley gestito alla perfezione.
Come quasi sempre accade nei triangoli, ci viene naturale prendere le parti di uno dei due challenger, e quindi l’inseguitore. Allora, nel film, ci sentiremo trasportati dalla parte di Josh O’Connor sexy e scapigliato, anziché da quella dell’educato e pulitino Mike Feist, che è anche un po’ stronzo, e scorretto, e cinico e arrivista. Guadagnino mette in scena un triangolo originale, però, e più complesso del solito: perché mostra nonnsolo la competizione, ma anche (e soprattutto, nel finale) il lato debole e vulnerabile di Feist, e quello troppo cazzone, e stronzo, e arrogante, ed egoista di O’Connor. Sicuramente empowered, ma soprattutto stronza appare anche Zendaya, e non si riesce a decidere se la sua pietà finale sia, in fondo, da premiare o da compatire.
Il problema dei triangoli, dal punto di vista di noi spettatori e lettori, è questo tifo che ci viene naturale, come se non fossimo in grado di astenerci una volta messi di fronte alla scelta. Tifare per qualcuno implica anche tifare contro qualcun altro: e questo crea certi fastidi emotivi soprattutto quando smettiamo di essere spettatori, e ci mettiamo a fare i protagonisti, ovvero quando un triangolo capita a noi in prima persona. Per sopravvivere allo stress del trittico, allora, un antagonista va trovato, e va anche ricoperto, poverino, di una serie di sentimenti negativi. Non basta sceglierlo come avversario: l’avversione va giustificata. Questo, naturalmente, accade quando siamo dalla parte degli inseguitori, che è anche, spesso, l’unica parte che è a conoscenza dell’esistenza stessa del triangolo.
Eppure i triangoli funzionano sempre, dal punto di vista narrativo: probabilmente perché, nello spazio solo apparentemente ristretto di una coppia e mezza, si possono creare intrecci narrativi infiniti. Non è vero che “three is a crowd” se sei uno scrittore o uno sceneggiatore: mentre sì, tre è il numero perfetto per inventarti un’ottima trama – sempre che non sia tu il protagonista.
Per esempio: c’è sempre un’amicizia maschile che si incrina, si perde e infine si ritrova anche in un altro dei più famosi triangoli di sempre, e cioè Jules et Jim di François Truffaut. E il regista però trova modi inaspettati e originali, sia per l’epoca che in senso più assoluto, di far dipanare la storia. Prima con il tentativo di una convivenza che sarebbe scandalosa anche oggi, figuriamoci all’epoca: e infatti il film venne vietato ai minori di 18 anni non tanto per i contenuti sessuali, ma per quelli morali. Infine con il suicidio di lei, che si porta dietro Jim, ignaro, unendosi per sempre a sorpresa in due loculi cimiteriali vicini.
Challengers è figlio di un modo nuovo di intendere il triangolo, che attraversa altri film recenti, come il bel Passages di Ira Sachs (2023). Qui, spicca la tossicità del “vertice” del triangolo, interpretato da Franz Rogowski: anche lui fluido, passa dal marito Martin alla bellissima Agathe con egoismo e cattie maniere. Anche qui, come in Jules et Jim, i tre provano a resistere come triangolo effettivo e aperto, ma l’architettura crolla presto, lasciando lei con una gravidanza inaspettata che non vuole portare avanti. Una situazione simile è quella che troviamo in Les Amours Imaginaires (2010) di Xavier Dolan, in cui lo stronzo è anche questa volta Nicolas, corteggiato da Francis (un uomo gay) e Marie (una donna etero). Ecco, un minimo comune si scorge: a mettere insieme quest’ultimo Dolan, Passages e Challengers ci accorgiamo di come lo spirito del tempo, finalmente non troppo fissato con l’eteronormatività, sia entrato in pianta stabile nei triangoli del cinema.
Parlando di triangoli in una agitatissima riunione in redazione, pochi giorni dopo l’uscita di Challengers, abbiamo cercato di arrivare a una definizione che fosse comune, e con sorpresa non ce l’abbiamo fatta. Il più importante dei distinguo è: si chiama triangolo una relazione tripla in cui tutti i soggetti sanno dell’esistenza degli altri? Oppure solo due ne sono a conoscenza, mentre uno è ignaro? Oppure solo il soggetto conteso, che si balocca (ma no: magari si strugge) tra due contendenti?
Spostandomi sulla letteratura, penso invece a un altro tentativo di tenere in piedi un triangolo consapevole, anche questo fallito, però: è quello, tenero e triste, messo in scena da Natalia Ginzburg in La città e la casa, romanzo epistolare del 1984. Qui Lucrezia, sposata con Piero, ripercorre la sua relazione con l’amante Giuseppe, poi diventato amico e basta. Piero non si ribella, cresce anche un figlio di Giuseppe insieme agli altri suoi, e anche Giuseppe sembra starsene lì e poi andarsene via, come si accetta un invito a cena per pura cortesia. Lucrezia, da parte sua, soffre di una tristezza che va ben oltre questa doppia relazione, e non risolverà mai: e quando lascerà anche Piero, e Giuseppe se ne andrà in America, rimarrà tra di due uomini amati (e triangolati) un’amicizia sincera. Se il triangolo è solitamente una geometria di adrenalina, odio e struggimento, in questo di Ginzburg appare invece il contrario: tutto è ovattato di una tristezza placida e lattiginosa.
Di recente ho letto, e amato molto, il romanzo Solo vera è l’estate di Francesco Pecoraro (vincitore del Premio Mondello 2023), in cui si mostra un rapporto geometrico diverso, appena un poco più largo: un rettangolo, oppure rombo, o trapezio. I tre protagonisti maschi, Giacomo, Enzo e Filippo, hanno tutti una relazione con l’amica Biba. Biba ufficialmente sta con Giacomo, con cui ha una relazione fatta di comodità e un rapporto sessuale in cui lui è sottomesso a lei; per amore sta con Enzo, sensibile e intelligente; per il puro sesso sta con Filippo, che lei obbliga a legarla e frustarla. I tre sono amici di una vita: trenta-e-qualcosa-enni legati dal liceo, compagni fraterni di scemenze e avventure più serie, e per Biba questo rapporto trino è irrinunciabile. È famiglia, è amore, è sesso, è calore, è un rifugio: è tutto ciò che vuole dalla vita. Giacomo non sospetta di nessuno, Enzo sa di Giacomo ma non di Filippo, e Filippo come lui, ma a ruoli invertiti. Non c’è crudeltà, nelle azioni di Biba, ma la consapevolezza di essere una sorta di collante nella triplice amicizia maschile. Si muove leggiadra e sorniona tra le case degli amici, di tutti ama qualcosa. Le capita di pensare che forse, se anche tutti sapessero tutto, le cose non cambierebbero. Pensiero magico, probabilmente. Ma forse in un trapezio l’equilibrio è davvero più saldo che in un triangolo. Toccherebbe provare.