Stili di vita
Tovagliette — Acqua pazza
Più che un piatto è una tecnica di cottura, ma può essere vista anche come la sintesi culinaria perfetta per chi non sa decidere cosa fare da grande.
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Credo di poter affermare con un discreto grado di certezza che la maggior parte di noi, a un certo punto della vita, ha immaginato di diventare tante cose contemporaneamente. Una vita in cui si vorrebbe essere fotografi, però si vorrebbe anche scrivere, e ti piacerebbe in fondo in fondo anche avere delle basi di mixologia. C’è chi vorrebbe lavorare coi bambini ma anche nell’arte contemporanea e un po’ vorrebbe fare anche marketing digitale. C’è chi vorrebbe fare arti plastiche, ma anche della musica elettronica, con una piccola tentazione verso il savoir-faire della lavorazione dell’ebano e dei legnami pregiati.
Poi, negli ultimi tempi, c’è anche qualche povero disgraziato che, oltre a cercare di essere scrittore, fotografo e chissà cos’altro, vuole anche fare il cuoco, o la cuoca.
In genere, molte di queste vocazioni divergenti si risolvono col tempo in una sofferta quanto inevitabile reductio, e la flotta di bastimenti partiti per la guerra dei (propri) vent’anni torna al porto più o meno decimata. E le altre vocazioni, quelle che non ce l’hanno fatta, rimarranno nei ricordi con un lontano rimpianto per le navi perdute. In termini gastronomici, questo tipo di approccio alla vita corrisponde a prendere una cosa, arrostirla un po’, brasarla per un istante, poi bollirla (però poco, e cuocerla infine al vapore dolcissimamente). Se si è fortunati, però, a un certo punto si trova la sintesi culinaria perfetta. In genere con dell’aglio, dei capperi, delle olive e dei pomodorini. Sto ovviamente parlando dell’acqua pazza.
Prima di tutto: l’acqua pazza non è un piatto, è una tecnica di cottura. Volendo, uno potrebbe cuocere all’acqua pazza anche una testina di vitello. Ultimamente mi sento però abbastanza tradizionalista, quindi vada per un’orata. Problema: l’equilibrio dell’acqua pazza (l’inaudita morbidezza delle carni, unita al gusto intenso della salsa) è possibile solo e soltanto se si cucina il pesce intero. Il pesce sfilettato rinsecchisce, s’indurisce, si sfalda. Tutto si tiene nell’acqua pazza, ma a condizione di rassegnarsi a inciampare nelle spine. Quindi, se si vuole trovare quella sintesi, bisogna comunque fare i conti con la spinosità delle vocazioni divergenti. Forse. O forse no.
Statemi bene a sentire e non impressionatevi, perché la ricetta è più facile a farsi che a scriversi. Prendete un’orata e sfilettatela (o fatela sfilettare dal pescivendolo). Con le teste e le lische potreste fare un brodo di pesce da utilizzare poi come “acqua” da far impazzire: ma non lo farete, quindi non sto a dilungarmi. Rimuovete con una pinzetta le lische rimanenti. A questo punto prendete un filoncino di buon pane, dal diametro comparabile alla dimensione del vostro filetto di orata (non c’è da impazzire, l’importante è non usare una baguette per un’orata da un chilo). Tagliate il pane a fette sottili, al massimo un centimetro: vi servirà una fetta per ogni filetto. Mettetele in una padella, a fuoco dolce, con abbondante olio e uno spicchio d’aglio in camicia: grigliate il pane da entrambi i lati finché non sarà dorato, al limite del bruciato.
Togliete il pane e mettetelo da parte. L’aglio lo potete lasciare lì. Nella stessa padella, a fuoco medio, aggiungete poi qualche cappero, molte olive e un po’ di peperoncino se piace. Poi aggiungete il filetto di orata, ovviamente sul lato della pelle. Poi aggiungete i pomodorini: incideteli con la punta di un coltellino e spremeteli nella padella. Non vi preoccupate del tempismo, i tempi di cottura equivalgono al tempo necessario a compiere ciascuna delle operazioni. Fate una cosa dopo l’altra e tutto andrà bene (senza pause sigaretta, magari, ecco). Una volta finito coi pomodorini aggiungete del vino bianco. Non c’è una quantità definita: l’importante è che il filetto non sia interamente sommerso. Un pizzico di sale. A questo punto avete arrostito, brasato, e bollito il vostro filetto.
Il vostro filetto, però, non è cotto, la carne è ancora rosa. E qui viene il bello. Togliete la padella dal fuoco, prendete la vostra fetta di pane arrostito e appoggiatela sulla carne rosa del filetto. Poi, con un cucchiaio o con una spatola da pesce, ribaltate con un gesto deciso il pesce, in modo che il filetto resti appoggiato sul pane, leggermente sollevato dalla padella. Rimettete la padella sul fuoco e aggiungete poca acqua, in modo da sommergere il pane ma senza toccare il pesce. Alzate il fuoco al massimo, e dopo altri 4-5 minuti prendete pane e pesce con la spatola e metteteli nel piatto. L’altro lato del pesce sarà cotto al vapore, e rimarrà morbido e succoso proprio come l’acqua pazza fatta col pesce intero. Continuate a ridurre l’acqua per qualche istante, fino a quando sarà densa e succulenta. Recuperate col cucchiaio tutto quello che c’è nella padella e riversatelo sul pesce, nel piatto. Aggiungete pepe, un filo d’olio e tanto prezzemolo. Mangiatelo e vi renderete conto che la vita può essere tenera e senza spine anche se è arrostita, brasata, bollita e cotta al vapore.
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