Many thanks to Bodymore, Muddaland
L’anno scorso ho avuto modo di godere dell’indimenticabile onore di parlare con David Simon per un’ora e mezza. In conclusione di questo articolo, vorrei riproporre alcuni stralci della nostra conversazione. Tenete a mente che sono considerazioni che, per quanto valide, sono state fatte un anno fa.
Sullo scrivere con altri autori del calibro di Price, Pelecanos e Lehane: “Penso che la mia cultura giornalistica mi abbia aiutato. La maggior parte degli altri autori mi ha confessato che scrivere collaborativamente era, per loro, la cosa più difficile. Quando scrivi un romanzo, sei da solo. È una delle sensazioni di più totale solitudine che uno possa fare in modo di provare. Ma, allo stesso tempo, sei in pieno controllo. Invece la nostra redazione era piena di persone orgogliose, piena di persone che avevano vissuto. Ma andava bene così, perché ognuno di noi sapeva che, alla fine, avrebbe vinto sempre l’idea migliore. E se sei onesto con te stesso, l’idea migliore la riconosci sempre. Alla fine, è stato fantastico.”
Sul suo modo di vedere la rivoluzione attuata da The Wire: “Per quanta rilevanza culturale abbiano avuto programmi come I Soprano, The Wire o Deadwood, l’audience non è nulla al confronto di qualcosa come American Idol. Ed è a quello che puntano i network. Puntano alla NFL. E quei numeri sono semplicemente irrangiugibili per un programma di HBO: non in termini di impatto intellettuale, ma in termini di quanti milioni di persone riesci a tenere incollate allo schermo. E, alla fine, non gli abbiamo insegnato niente. Quando guardano The Wire i network non pensano, ‘Oh, sì, datemi altro The Wire, questo sì che ci renderà ricchi.’ Televisivamente parlando, non c’è stata alcuna rivoluzione.”
Sul suo modo di vedere la narrativa: “Sono stato formato come giornalista. Ho pensato allo scrivere romanzi, ma la verità è che se lo facessi, lo farei nella maniera di Richard Price o George Pelecanos, con un approccio legato al reale, dove comunque uscirei per le strade per assorbire la grana e le sfumature del mondo di cui vorrei parlare per poi creare una storia di finzione all’interno di quel mondo. È questo l’impulso alla base di The Wire. È iniziato in maniera giornalistica, con l’idea di descrivere l’America di cui avevo scritto, di cui avevano scritto questi altri autori, l’America urbana che abbiamo creato. E non ci meritiamo molto di meglio. Non è l’unica America, ma è indicativa di una porzione dell’America, una porzione che sta crescendo, e di cui ci siamo dimenticati. Ovvio: The Wire era un’opera di finzione. È comunque una storia inventata. Ma non avrei mai l’immaginazione per… la fantascienza, metti. La mia creatività ha le sue radici nella realtà. È vero: ho già fatto un grosso passo via dal giornalismo creando The Wire, ma non penso che riuscirei a fare un ulteriore passo, a spingermi a creare mondi, su carta o celluloide, di cui non sono a conoscenza. Sono fissato: bisogna sempre iniziare dalla realtà.”