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A The Brutalist manca il coraggio di essere davvero un capolavoro

Candidato a dieci Oscar, il film di Brady Corbet arriva vicinissimo a essere il più importante e provocatorio di questi anni. Ma all'ultimo momento si tira indietro e quel che resta è un'opera ambiziosa ma incompleta.

di Francesco Gerardi

Il sogno americano non è mai esistito. Se a dirlo è Hollywood, c’è da crederci per forza, che per quasi un secolo lo ha impacchettato e venduto. «Siamo venuti qui perché non avevamo altra scelta!», urla un furibondo László Tóth (Adrien Brody) alla moglie Erzsébet (Felicity Jones). «Questa gente non ci vuole qui. Siamo niente. Siamo peggio di niente», insiste, mentre Erzsébet scoppia a piangere. «Poverino. Il mio povero marito. Che cos’è che ti hanno portato via…», dice lei, singhiozzando. László Tóth è peggio che niente, è vero. È un sopravvissuto alla Shoah, è un profugo, è un ebreo, è un alcolizzato, è un eroinomane. Soprattutto, è un artista in un mondo che gli artisti li tollera solo finché può servirsene.

Al Terzo Reich non serviva il Bauhaus, agli Stati Uniti d’America non serve un brutalista (tanto meno uno che è pure un profugo, un ebreo, un alcolizzato, un eroinomane). Che fare, allora? Andare dove almeno si ha la libertà di mendicare e dove gli altri hanno abbastanza spiccioli in tasca da potersi permettere la carità. László dunque scappa da Budapest e parte per l’America, quando la nave arriva al porto di New York lui si precipita sul ponte per vedere la Statua della Libertà: è lì ma la vede al contrario, come se fosse appesa per i piedi. È un presagio, si scopre poi. Un presagio di sventura: il sogno americano di László non sarà una vetta ma un burrone, una caduta talmente rovinosa che l’atterraggio non è il problema ma la soluzione.

È possibile che The Brutalist non sia il miglior film che uscirà quest’anno né il migliore tra quelli candidati all’Oscar. È tante cose e tutte assieme, troppe perché il risultato possa essere un film riuscito. The Brutalist somiglia in fondo, e banalmente, all’istituto Van Buren, l’edificio che il miliardario Harrison Van Buren (Guy Pearce) commissiona a László e che quest’ultimo passerà la vita a costruire. «Una biblioteca, una palestra, un auditorium, un chiesa: sono quattro edifici, non uno», spiega l’architetto ai committenti, provando a far capire che un edificio (uno bello, almeno) sempre uno è, a prescindere dalle dimensioni. Alla stessa maniera si potrebbe descrivere The Brutalist: è un incubo americano ed è un holocaust movie; parla di arte, potere, immigrazione, trauma intergenerazionale e capitalismo predatorio; è sia un character study che un’epopea; è stato fatto con i risibili mezzi del cinema indipendente ma è stato accolto come un kolossal moderno. Un film (uno bello, almeno) sempre uno è, il problema di questo film è che non lo si può ridurre a niente: è tutte queste cose, tutte assieme, ma non è davvero nessuna di esse. Dura duecentoquindici minuti, The Brutalist: ne sarebbero serviti di più, e anche tanti di più, per finire tutti i discorsi cominciati e abbandonati.

Ovviamente, è possibile che sia una scelta del regista Brady Corbet. È possibile che la sua intenzione non sia mai stata fare un film ma raccontare una vita così com’è. «Non indicano niente. Non dicono niente. Semplicemente, sono», con queste parole vengono descritte le opere migliori di un László ormai decrepito, maestro venerato alla prima Biennale di architettura del 1980, nel terzo e ultimo atto del film. È possibile che The Brutalist non volesse indicare né dire niente ma semplicemente essere, come la vita, come la roccia, come gli edifici brutalisti che alla roccia si ispirano. Cercare in questo film i princìpi ordinatori della narrativa, dunque, potrebbe non aver senso: una vita non ha un tema, uno scopo, un messaggio. È possibile che Corbet abbia voluto sfidare il suo stesso protagonista, vedere se a quell’ideale («semplicemente, sono») sarebbe arrivato prima lui con il suo film o László con il suo edificio. Forse è per questo che, a dispetto del titolo The Brutalist, il magnum opus di László (ma in realtà la sua opera in generale) “si vede” così poco: forse Corbet non voleva farci vedere la magnificenza di cui è stato capace il suo avversario, al cui confronto il suo lavoro sarebbe apparso assai modesto. Più modesto di quanto già non appaia. Dirlo può sembrare pretestuoso, persino offensivo, perché avrete visto le stesse immagini promozionali e gli stessi trailer che ho visto io, ma The Brutalist è un film esteticamente modesto, discreto, parsimonioso (non basta montare in rapida successione delle foto di palazzoni per meritarsi l’aggettivo “monumentale” di cui si sta facendo imprudentissimo uso). Lo è per forza di cose, perché con un budget di 10 milioni di dollari non si può certo scialacquare. E non è un caso che la scena migliore del film – quella della ristrutturazione dello studio di Harrison – sia di interni, in un senso doppio, di location e di design. The Brutalist, paradossalmente, eccelle davvero negli spazi stretti, non quando ambisce ma quando s’arrangia.

In realtà, che Corbet volesse fare un film vero e proprio lo sappiamo perché ce lo ha detto lui e sempre perché ce lo ha detto lui sappiamo  che voleva fare un film sul trauma intergenerazionale. Dunque l’immigrazione come trauma, perché «l’esperienza della migrazione è la più universale. Non conosco nessuno che non ne sia stato toccato o la cui famiglia non sia stata toccata, in un modo o in un altro», ha detto il regista. Torno a una cosa accennata prima: è possibile che The Brutalist non sia il miglior film che uscirà quest’anno né il migliore tra quelli candidati all’Oscar, ma è certamente il film più americano visto da un pezzo a questa parte. A ognuno la libertà di decidere se questo sia un pregio o un difetto. C’è chi dirà che non c’è niente di più contemporaneo di un film americano sull’immigrazione, oggi che sulla homepage del sito della Casa Bianca vengono pubblicate le foto di immigrati clandestini in manette, in fila indiana, imbarcati su aerei militari con rotta “casa loro”. C’è chi dirà – e io sono tra questi – che solo un americano può credere ancora che valga la pena spendere tempo, soldi ed energie per dire che il coming to America è, ed è sempre stato, «una favola», come lo definisce Corbet. Il resto del mondo lo sa da mo’, lo ha scoperto all’arrivo sotto la Statua della Libertà, proprio come è successo a László.

Sarebbe stato tutto più interessante se Corbet avesse ammesso – o anche solo accettato – ciò che chiunque vede guardando The Brutalist: László non è “un immigrato”, è un sopravvissuto alla Shoah, la differenza che passa è quella tra un uomo vivo e uno che non è morto. Per la maggior parte del film, l’ebraismo di László viene trattato come un questione di accuratezza storica: siccome la maggior parte degli allievi del Bauhaus provenivano da Paesi dell’Europa centrale e dell’est, è accurato che questo architetto ungherese nato nel 1911 in un villaggio dell’allora Austria-Ungheria sia ebreo. E poi era ebreo Marcel Breuer, la principale fonte di ispirazione di László Tóth. Ma in una minore e coraggiosa parte di The Brutalist, l’ebraismo diventa il core di questa storia. In questa parte del film, László è uno degli ebrei più affascinanti e contraddittori che si siano mai visti al cinema: quando nasce lo Stato di Israele, scende in strada ad accendere delle stelle filanti comprate con i pochi soldi che è riuscito a mettere da parte; quando gli propongono di trasferirsi lì, risponde stizzito che non si sente meno ebreo perché preferisce restare a New York. Va in sinagoga ogni Shabbat e si stordisce tutte le volte che può. In queste parti di film che sono poco più di spezzoni, Corbet riesce sì a dare un punto di vista rilevante sull’esperienza (sull’interiorità, viene da dire) dell’immigrato, recuperando forse con coraggio, forse con inconsapevolezza, un archetipo che oggi è impossibile maneggiare senza ustionarsi gravemente: quello dell’ebreo come escluso eterno, emarginato perfetto, straniero inevitabile. La vittima.

Quando il punto di vista dello spettatore viene portato qui, The Brutalist assomiglia davvero a un edificio brutalista. Assomiglia quindi a una sfida lanciata a chi guarda, una sfida a vedere le cose per come «semplicemente, sono». Dopo tutto quello che è successo durante lo scorso anno nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, è ancora possibile vedere il viaggio dell’ebreo László Tóth per ciò che semplicemente è? O i fatti del mondo sono per un film come la vernice sul cemento, uno strato di superfluo che impedisce il movimento di una macchina altrimenti perfetta? Personalmente, nei momenti in cui The Brutalist mi ha posto questa domanda mi sono sentito terrorizzato dalla risposta che  ho dato. Gli sforzi che ho fatto per non ammettere che il film raccontava semplicemente la storia di un ebreo brutalizzato dal mondo intero, le astrazioni alle quali sono ricorso pur di non accettare questa verità (parla di stranieri in generale; no, anzi, di artisti; no, meglio, di emarginati in senso lato) mi hanno svelato una parte di me che non pensavo potesse esistere, il ferro e il cemento che ho coperto con le vernici e le decorazioni. Se Corbet avesse avuto il coraggio di portare questo film, che pure esiste in mezzo a tutti gli altri film che ha deciso di mettere in The Brutalist, fino alle estreme conseguenze – e cioè fino al trionfo di László – allora avremmo avuto davvero una delle opere più politicamente e intellettualmente provocatorie di questa epoca, quella che pone la domanda alla quale nessuno di noi ha voglia, né capacità, di rispondere: che cosa facciamo con le nostre amatissime vittime quando queste decidono che di subire ne hanno avuto abbastanza? A Corbet il coraggio di arrivare fino a questo punto è mancato, il trionfo di László alla fine avviene ma fuori scena, quindi è come se non avvenisse: tutto quello che ne resta è un generico richiamo alla “presenza del passato”, come si intitola la personale che la Biennale dedica a László alla fine della sua vita. E alla fine è meglio così, è meglio che quella domanda The Brutalist non la faccia: perché come a Corbet è mancato il coraggio di porla, sono certo che a me, a noi, sarebbe mancato quello di dare la risposta.