La copertina del New York Times Magazine del 9 agosto 2020 è una specie di manifesto per quello che il mondo sta vivendo da cinque mesi: che non è soltanto il lockdown, ma anche il lavoro da casa, la scuola da casa, lo yoga da casa… Qualsiasi cosa, più o meno, che un tempo si faceva non da casa, però adesso da casa. Mostra un paio di pantaloni di felpa, soffici, confortevoli anche soltanto alla vista nella loro tinta verdolina; sono attaccati a un’asta tipo bandiera, e sventolano al vento. La scritta sotto dice: Sweatpants forever.
Di tutte le cose che la pandemia, e il nostro rintanarci in casa, hanno cambiato, l’abbigliamento sembra essere uno degli argomenti su cui si è più felicemente discusso. Apparentemente – ma il polso dell’apparenza è sempre quello di internet – una discreta fetta di mondo non vedeva l’ora di vivere in pantaloncini da ginnastica e felpe oversized, oppure, per le case più fredde, calzettoni di cotone e tute di pile tipo astronauti ma morbidini.
Perché non vestirsi con qualcosa di estremamente comodo, d’altra parte, se non c’è nessuno a vedere quello che mettiamo? Perché non fa bene, direbbe Karl Lagerfeld, che descrisse i pantaloni della tuta come «il segno di una sconfitta»: «Hai perso il controllo della tua vita, e quindi hai comprato dei pantaloni di felpa». A guardare Tenet, l’evento cinematografico dell’anno, pare che Christopher Nolan la pensi allo stesso modo. Mentre John David Washington e Robert Pattinson si spostano segretamente dal presente al passato, e forse anche nel futuro (dipende da dove lo si guarda, immagino), mentre fanno inseguimenti in auto trasportando armi di distruzione di massa e sparano, naturalmente, e cercano di non essere uccisi, mentre si fanno ricevere dalla più grande commerciante d’armi del mondo e invitare a cena dal magnate del plutonio di contrabbando, sono abbigliati in outfit impeccabili e molto, molto formali. I costumi sono di Jeffrey Kurland, già con Nolan in Inception e Dunkirk, e all’opera anche nell’elegantissimo Ocean’s Eleven.
Sopravvissuti a una primavera e a un’estate trascorse in casa in preda alla dittatura del leisurewear, gli abiti dei due protagonisti appaiono, alle porte dell’autunno, come un’isola di piacere e bellezza, quasi un balsamo dello spirito, a cui aggrapparsi per attraversare in pace i duecento minuti di azione del film.
Pensare a un action movie con un protagonista in abiti non ideati primariamente per il comfort di ammazzamenti e fughe farebbe immediatamente associare Tenet a James Bond, eppure l’agente segreto, anche nelle sue versioni più vintage, risultava comunque più tecnologico dei protagonisti di Nolan. Il workwear di Bond è pratico, e quello che era uno smoking all’apparenza si rivelava, in realtà, un’armatura, o uno scudo termico, o il camuffamento di una struttura pensata per il volo umano. Un orologio non è mai un orologio, ma può rivelarsi facilmente un aggeggino per invertire la polarità magnetica. A ben vedere, più che una spia elegante, Bond è il non plus ultra dello utility wear.
In Tenet, niente di tutto questo. Gli abiti sono abiti, nessun accessorio è in dotazione, e per non regalare nulla alla sciatteria, John David Washington abbina, all’abito gessato con cui si troverà a schivare proiettili invertiti, anche un panciotto grigio. È elegante anche mentre viene minacciato di morte dal malvagio antagonista russo, con la polo portata impeccabilmente sotto il blazer. Robert Pattinson, invece, è più formale ma in un certo senso più originale. Affronta i combattimenti in doppiopetto, e quando ha freddo si ripara con un’elegante sciarpa che lo fa somigliare a una specie di Pete Doherty in forma e ricorda, infatti, il Dior Homme di Slimane. Chi invece è vestito evidentemente male, con abiti troppo troppo attillati per cadere bene sulle pieghe dei corpi, sono soltanto i cattivi, e soprattutto le guardie del corpo di Andrei Sator, con dei giromanica, forse, troppo stretti per picchiare come si deve.
Il mondo forse è davvero destinato allo smartworking in tuta, alle conference call in mutande sotto il mezzobusto incamiciato, ma Nolan, in Tenet, prova un atto di resistenza. È la rivendicazione dell’importanza del sartoriale in un mondo che è minacciato dalla dittatura della tuta, ma volendo esagerare (se c’è di mezzo Nolan vale tutto) è anche qualcosa di più: l’affermazione della possibilità di un controllo in un momento dominato dal caos, il mantenimento di un’identità nell’omologazione portata dal disordine. Una bella cravatta, la camicia giusta.