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È stato bello, Medium

Come il social network creato nel 2012 da Evan Williams, cofondatore di Twitter, ha provato a diventare piattaforma per gli editori, per poi tornare sui suoi passi.

31 Agosto 2017

Niente, l’esperimento è finito. Nel giro di un anno, o poco più, i media che erano migrati su Medium hanno fatto inversione di marcia. Uno degli esempi più discussi è quello di The Awl, una testata di cui abbiamo già parlato su Studio, che era passata alla nuova piattaforma nella primavera dello scorso anno, per poi aggiornare, questo agosto, un’inversione di rotta: «Spostarci su Medium è stato un esperimento figo, per come la vedo io, ma è passato un anno e personalmente mi mancavano le pubblicità», ha scritto la direttrice Silvia Killingsworth, che dirige il magazine e il suo spin-off femminile, The Hairpin. Non è un caso isolato: una parabola simile l’hanno vissuta Think Progress e il Pacific Standard. Poi c’è Backchannel, il blog di approfondimento tecnologico, nato come pubblicazione nativa di Medium e che si è spostato su Wired a inizio estate. La storia è un po’ diversa, rispetto a quella di The Awl, le motivazioni sono simili: «Ok, perché stiamo lasciando Medium? La risposta breve è che amiamo la piattaforma e la comunità che ha creato attorno alla nostra testata. Ma, nel frattempo, Medium ha cambiato la sua business strategy, e non è più focalizzato sull’aiutare testate come la nostra a fare profitti».

Per i pochi che ancora non lo sapessero, Medium è una piattaforma blog che incorpora qualche elemento più tipico dei social network, creata nel 2012 da Evan Williams, già cofondatore di Twitter, che infatti lo definiva come «un luogo dove le persone possono condividere storie e idee che sono più lunghe di 140 caratteri e non sono soltanto per gli amici». Si distingue, tra le altre cose, per l’eleganza (e l’estrema facilità) dell’impaginato e per la possibilità, offerta ai vari utenti, di interagire fra loro non soltanto attraverso la sezione commenti, ma anche sottolineando, raccomandando e cose del genere. «Definire esattamente che cosa è Medium non è mai stato un compito facile», scriveva Fortune un paio d’anni fa, e a ragione. Un servizio di blog hosting? Certamente, ma non solo. Un social media? Forse anche questo, almeno nelle intenzioni (Josh Benton, il massmediologo di Harvard, lo aveva definito uno «YouTube per la prosa»). Un servizio per gli editori? E qui la risposta potrebbe essere: ha provato ad esserlo, ma poi la cosa non è andata in porto. Anche per una scelta della società.

Twitter Co-Founders Biz Stone And Evan Williams Address Developers Conference

Correndo il rischio di semplificare un po’, la parabola di Medium potrebbe essere riassunta come segue. È nato, relativamente in sordina, cinque anni fa, ovvero nella tarda antichità dei social media. In un primo momento è cresciuto lentamente ma costantemente, generando un sensibile buzz tra gli addetti ai lavori, che ha cominciato a farsi sentire tanto nel 2015. L’anno successivo, poi, ha fatto il botto: +97% tra i lettori, 25 milioni al mese, e 75 mila post a settimana. Dati assoluti ridotti, se gli standard sono quelli di un social network, eppure ottimi, se non propriamente spettacolari, se sono quelli di un editore. Proprio i quel periodo, infatti, Medium comincia a comportarsi da editore (per contestualizzare le cose: era più o meno la stessa fase in cui Facebook cominciava a sperimentare con gli instant articles) e a stringere accordi con varie testate. Prima nascono i magazine nativi di Medium, poi altri cominciano a sperimentare pubblicando parte dei loro contenuti direttamente sul sito. Infine, nella primavera del 2016, una serie di magazine e affini “indie ma neppure troppo” compiono la migrazione vera e propria.

È durata, si diceva, poco più di un anno e un articolo di Nieman Lab aiuta a capire il perché. Il problema, spiega, sta tutto nella pubblicità: “Tutte queste testate hanno lasciato, principalmente, perché gli piace ancora la pubblicità e il futuro che il fondatore di Medium vede per la società non include la pubblicità. Neppure la pubblicità nativa, che invece rappresentava un punto chiave del piano di Medium quando, nel 2016, lanciò il suo programma per editori». Poi, a un certo punto, tra la primavera dell’anno scorso e il gennaio di quest’anno, qualcosa va storto. Da un lato Medium non riesce a raccogliere pubblicità, dall’altro il suo creatore decide che la pubblicità è un problema. «I media ad-driven su internet sono un sistema rotto», scrive in un post, «anche se fossimo economicamente sostenibili faremmo comunque sistema parte di un sistema rotto». È l’inizio di quello che qualche analista definisce come il meltdown di Medium.

Le motivazioni ricordano un po’, come farebbero notare i maligni, quelle di un adolescente che, davanti a una fidanzata sta per mollarlo, dice “sono io che me ne vado”. Però c’è anche dell’altro, Williams è granitico, e forse spietatamente lucido, nelle sue posizioni. Chiude gli uffici di Londra e New York e licenzia un terzo dello staff. Le testate “vere”, quelle che hanno bisogno di soldi per campare, se ne vadano pure. Medium diventerà, e cioè ritornerà, un posto adatto a chi scrive per hobby, oppure ai freelance che vogliono farsi notare tra un lavoro pagato e l’altro, come scrive Nieman Lab. Che la sua creatura diventi un posto per amateur non fa poi così paura a Williams. Il dilettantismo, inteso non come qualità bassa ma come mancanza di ricerca del profitto, è parte integrante del futuro del giornalismo e se non hanno pubblicità mangino brioche. Per una volta, il purismo e realismo stanno dalla stessa parte.

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