Provaci ancora, Starbucks

Chiudono gli store milanesi di via Turati e Porta Romana e si riapre la discussione: il caffè americano in Italia era un flop annunciato come dicono i detrattori o un mercato esiste anche da noi, come si intuisce dalle nuove aperture annunciate dall'azienda?

07 Febbraio 2022

Il progetto era ambizioso: il colosso americano del caffè Starbucks che vuole aprire in Italia una catena di negozi per vendere un prodotto che gli italiani, un po’ sdegnosamente, considerano un vanto, una gloria nazionale. Ci sono voluti 35 anni e molti tentennamenti ma alla fine, anche grazie a Percassi (partner licenziatario unico per l’Italia), Starbucks ha inaugurato il suo primo tempio del caffè su suolo italico scegliendo come apripista Milano, «la città della moda e del design», annunciava nel settembre 2018 il fondatore e chairman emeritus della società Howard Schultz. Meno di quattro anni dopo, smorzati gli entusiasmi (e le polemiche, compresa quella sulle palme in piazza del Duomo, sponsorizzate dall’azienda per annunciare l’apertura della Reserve Roastery in Cordusio), la caffetteria della sirena batte (un po’) in ritirata e chiude due degli altri sette locali nel frattempo sorti in città, quello di via Turati, che avrebbe dovuto riaprire ristrutturato il 22 novembre 2021, e lo store di Porta Romana.

Colpa del Covid? Può darsi. I locali di Turati e via Lentasio erano situati in zone di uffici, che con il cambiamento (forzato) delle abitudini dei lavoratori e l’avvento dell’home working hanno visto i propri spazi svuotarsi drasticamente. Per cui si potrebbe osservare che i due punti vendita non sono gli unici ad aver abbassato le saracinesche in questi due anni di pandemia. La Starbucks Italy s.r.l. ha realizzato 11 milioni di guadagni nel 2019, in calo di oltre il 44% l’anno successivo. L’investimento maggiore è quello fatto sulla torrefazione di piazza Cordusio, nell’ex Palazzo delle Poste, un edificio simbolo della Milano di inizio Novecento: circa 50 milioni di euro tra caparra, migliorie allo stabile e installazione degli impianti. Una spesa giustificata dal fatto che la Reserve Roastery provvede anche a rifornire i negozi Starbucks sparsi in Europa, Medio Oriente e Africa.

La Starbucks Reserve Roastery di Piazza Cordusio 1 a Milano

Va detto però che la pandemia ha solo accelerato processi e tendenze che erano già in atto. In tempi di Covid molta ristorazione (a Milano come altrove) è riuscita a tenersi a galla offrendo servizi di asporto e soprattutto consegna a domicilio non solo di pizze, hamburger, sushi e cibo cinese, ma anche di menu gourmet. Nel caso di Starbucks, che pure ha avviato una partnership con Deliveroo nel 2020, la formula non sembra aver funzionato. E forse per un motivo: il Frappuccino, il Caramel Macchiato, il Mocha e gli altri cavalli di battaglia del brand di Seattle sono cose molto diverse da quello che un italiano è solito ordinare al bar. Non perché il caffè nostrano sia necessariamente migliore (lo rivelava già un’inchiesta di Report del 2014, che lamentava la bassa qualità delle miscele e le modalità errate di preparazione nei locali, a partire dall’uso di acqua sporca), ma perché diversa è la cultura del caffè. Non è un caso che Starbucks abbia scelto una città internazionale come Milano (e una torrefazione) per la sua «umile e rispettosa» – erano le parole di Schultz – apertura in Italia e non, ad esempio, Napoli o Roma, dove questa cultura è più radicata.

Starbucks è prima di tutto un brand, un logo verde e bianco da svariati miliardi di dollari entrato nell’immaginario popolare americano con i suoi drink di culto e il design virale delle sue holiday cup. Incarna gli ideali di successo del suo fondatore, il sogno a stelle e strisce di Schultz, nato in una famiglia povera di Brooklyn e diventato in breve tempo proprietario di un impero. Per i clienti milanesi vorrebbe essere il marchio che portano in giro sui bicchieri di carta, uno status symbol, un posto dove lavorare, qualcosa in cui riconoscersi. Perché Starbucks non vende solo caffè: è soprattutto un’esperienza, è l’atmosfera familiare che si respira nei suoi negozi, la combinazione unica di fragranze e sensazioni pensata per farti sentire come a casa. Lo raccontò lo stesso Schultz ricordando il viaggio a Milano – era il 1983 – che lo spinse a ideare Starbucks e che nel 2018 lo ha riportato nella città dove è nata l’intuizione: «Ricreare il senso di comunità incontrato nei bar italiani». Inutile dire che questa esperienza ha un costo.

C’entra anche forse il fatto che in Italia il caffè non sia un bene di lusso. I prezzi della Reserve Roastery di Cordusio: 1,80 euro l’espresso, 3,50 euro l’americano e 4,50 euro il cappuccino,  «quando un milanese spende in media 1 euro per l’espresso e 1,30 euro per il cappuccino». Per i consumatori italiani, insomma, la convenienza vale più dell’esperienza, specie quando si tratta di catene (americane) di fast food, la cui offerta poi è spesso vista come rivolta prevalentemente a un pubblico giovane. Starbucks comunque non si arrende e fa sapere di aver avviato la ricerca di due nuove location che sostituiranno quelle di Turati e Porta Romana. Altri 26 negozi, assicura, saranno aperti entro il 2023 nel nord e centro Italia. Con un nuovo format: i “Kiosk” nelle stazioni e gli “Short Store”, ovvero i banconi per il caffè, nei centri commerciali. Funzionerà?

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