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La moda ai tempi del #MeToo

Tra magliette-slogan, "scomparsa" del sexy e accuse di molestie: alcune domande e riflessioni aperte su moda e nuovi femminismi.

21 Marzo 2018

Riguardando le collezioni che hanno sfilato durante il mese della moda, si contano sulle dita di una mano gli stilisti che hanno deciso di mostrare la pelle delle indossatrici, scoprire seni o anche solo stralci di gambe. Decimati anche i tacchi a spillo, a favore di quelli a rocchetto o di quelli bassi e squadrati à la Jacquemus, molte invece le ciabatte e le babouche, vere vincitrici morali di questa rivoluzione culturale, e gli stivaloni ingombranti. È chiaro anche all’occhio inesperto che alle silhouette allungate e filiformi si sono sostituite, e da molte stagioni anche, altre volutamente esagerate, prendi i look di Balenciaga che hanno ispirato prevedibilissimi meme con protagonista Luka Sabbat. Lo stesso dicasi per le campagne pubblicitarie, anche quelle dell’intimo e dei costumi da bagno, una volta regno incontrastato dell’ammiccamento pruriginoso e dell’erotismo gioioso (indimenticato l’Hello Boys di Eva Herzigova per Wonderbra) dove ora, al contrario, vanno per la maggiore interi castigati, ma sgambati fino al bacino, e due pezzi che non facilitano di certo l’abbronzatura totale.

Viviamo nell’epoca in cui Jennifer Lawrence deve giustificarsi se decide di non coprire il suo abito di Versace mentre i suoi colleghi maschi si stringono nei cappotti, un’epoca apparentemente così diversa dalla rivoluzione culturale degli anni Sessanta, che aveva accorciato le gonne e mandato a quel paese i reggiseni. Ora le donne, nota la già citata Natalia Aspesi su Repubblica all’indomani delle sfilate milanesi, non ne vogliono sapere di mostrarsi agli occhi altrui e decidono invece di “coprirsi”. O almeno, questo è quello che si può intuire guardando le suddette passerelle, che sono poi un’interpretazione del guardaroba formulata dagli stilisti, i quali, come scrive Lou Stoppard sul Financial Times, sono in fissa con la parola “empowerment”, espressione quasi intraducibile che sta per “sentirsi in grado di” “avere il potere di”, e rigettano il “sexy” come se Tom Ford non fosse mai esistito. Un’epoca triste, insomma, che ci priva della gioia del corpo femminile e ci consegna eserciti di infagottate che comunque starebbero male in total look Lemaire perché, e qui le cose non sono cambiate di una virgola, per vestirsi in quel modo bisogna essere magre.

Peccato non sia proprio così. Che la moda stia affrontando un periodo di grande ridefinizione è evidente, ma l’estinzione del sexy non rientra tra le perdite di cui sentiremo la mancanza. Intanto perché tornerà, prima o poi, perché sexy non ha mica un’unica definizione che vada bene per tutti, e poi perché le donne non si sono mai mostrate come fanno ora, basta farsi un giro su Instagram. Semmai è passata una certa idea di sensualità femminile, che per lungo tempo è stata quella dominante e che, pur avendoci regalato pagine di moda indimenticabili come quelle scritte da Gianni Versace e Tom Ford, oggi si riformula secondo altri canoni, com’è naturale che sia. E se Milano non troppo tempo fa veniva accusata di produrre solo vestiti “da prostituta”, indimenticabile polemica dei primi anni Duemila, oggi i designer cercano di rispondere alle variegate esigenze di consumatrici che non sono più immaginate e ricostruite dai plichi delle agenzie di trend forecasting, ma dichiarate in abbondanza sui social, nuovo imperscrutabile metro di giudizio dell’aria che tira. Il sesso non vende più, diranno i cinici, l’attivismo invece va alla grande, e di come pubblicità e marchi siano saltati, spesso acriticamente, sul carro dei nuovi femminismi ne abbiamo parlato più volte.

Eppure ci sono alcuni aspetti interessanti di cui tener conto a fronte di questa riflessione. Il primo riguarda l’impatto del #MeToo e della più generale discussione sulle molestie sul lavoro nell’industria della moda. Le accuse ai fotografi Terry Richardson, Mario Testino e Bruce Weber tra gli altri – questi ultimi due con tanto di exposé del New York Times a firma di Vanessa Friedman, Matthew Schneier e Jacob Bernestein – non hanno certo sortito l’effetto Weinstein, e per una serie di motivi. Intanto perché quello della moda è un ambiente ancora più elitario di quello del cinema e l’identificazione con i modelli-vittime è stata ancora più difficile di quella con le attrici (l’Italia fa caso a sé, ché ultimamente non eccelliamo in solidarietà), per cui al fenomeno (che pure esiste e di cui nessuno si è sorpreso) non è stata dedicato da media e opinione pubblica lo stesso spazio. Già nel 2016 James Scully, un direttore di casting piuttosto famoso, aveva provato a denunciare gli abusi cui molte ragazze sono sottoposte dal sistema, ma le sue accuse e riflessioni non hanno varcato la soglia degli addetti ai lavori. Un problema, però, eccome se c’è.

Immaginate questi giovanissimi uomini e donne, che si trasferiscono nelle grandi città della moda e vengono consegnati nelle mani di agenzie i cui meccanismi, senza voler fare di tutta l’erba un fascio e screditare un intero settore di professionisti, sono spesso poco chiari e controllati. Ecco perché, sempre in America, si sta lavorando a un sindacato delle modelle, che possa raccogliere le denunce di eventuali abusi e garantire protezione legale. Poi ci sono le considerazioni di natura artistica, simili a quelle che abbiamo fatto sulla divisione dell’artista dalla sua opera: fino a che punto un fotografo, o una stilista, si può spingere per ottenere l’immagine che si è prefissato e il cui raggiungimento è il suo lavoro? La nostra opinione di fronte alle bellissime foto di Weber, che trasudano un erotismo molto particolare, cambia se sappiamo che quel modello è stato palpeggiato contro la sua volontà oppure ostacolato nella sua carriera se non ha accettato le avances sessuali di qualcuno molto più grande e influente di lui? Questa discussione ci riporta inevitabilmente al punto di partenza, che è poi uno dei nodi centrali: come si evolverà il rapporto tra la moda e il sesso? Qual è il futuro delle immagini sessualizzate e della nudità nella moda, che è pur sempre un’industria che fa presa sul desiderio di apparire al proprio meglio?

Di risposta, naturalmente, non c’è n’è una sola. Non si tratta affatto di condannare tout court la sessualità e il suo immaginario vastissimo, né di bannare i vestiti rivelatori, i tanga o i tacchi a spillo. Si tratta piuttosto di aggiornare quell’immaginario stesso alla nuova sensibilità culturale, che poi è quello che la moda fa di mestiere, e magari investigare il ritorno di certi riferimenti: la decostruzione intellettuale di Martin Margiela, da una parte, il “power dressing” ottantiano nell’accezione di Giorgio Armani dall’altra, quello che per prima mescolava i ruoli guardando, praticamente, ai cambiamenti della società. Il red carpet e le pagelle ai vestiti delle attrici, i concorsi di bellezza e le sfilate di Victoria’s Secret ci sembrano ormai cose del secolo scorso e mentre le supereroine dei fumetti sono sottoposte a pretenziosi (e spesso vuoti) re-branding para-femministi, è utile chiedersi che fine ha fatto la capacità della moda di leggere il suo tempo.

Età, difformità e possibilità di cambiare il proprio corpo, e di conseguenza la propria identità, attraverso il make-up, la chirurgia, infine la tecnologia: questi sono i concetti attorno ai quali si sviluppano le cose più interessanti dell’oggi, che pure vanno dissezionati. Quali fra questi sono “solo” trend – le donne adulte o anziane nella pubblicità, per esempio – e quali invece nuove chiavi di interpretazione del reale? Quanto ancora vogliamo essere magri e bianchi e quanto invece quanto neri e formosi? Alexander Fury ha recentemente scritto sul T Magazine della recente enfasi data da molti stilisti al girovita maschile, sottolineando come «questa silhouette racconta di un altro tipo di fluidità di genere, basata sul concetto che l’iper-mascolino e l’über-femminile siano in realtà molto simili». E se, insomma, stessimo già parlando di sesso e non ce ne fossimo accorti?

Foto Getty: Gucci, Jacquemus, Lemaire F/W 2018/2019
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