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Le contraddizioni del No

Spazzare via tutto ma tenere tutto così com'è: la strana alleanza tra populisti, massimalisti e conservatori.

05 Dicembre 2016

Pare che tiri un vento forte in Europa, fatto di populismo, di rivolta delle masse contro l’élite, di razzismo, anti-immigrazione e anti-globalizzazione, e la prima impressione è che il referendum italiano sia al contempo parte di questa tendenza e qualcosa di diverso.

La Brexit nel Regno Unito; Francia, Germania e Paesi Bassi, tutte nazioni dove si vota nel 2017, con la destra xenofoba in netta ascesa (a Parigi e Amsterdam c’è una possibilità concreta che Marine Le Pen e Geert Wilders vincano le elezioni, ma anche Angela Merkel appare in qualche modo più debole); in Austria è stata evitata per un soffio la vittoria di un partito fondato da due ex SS il cui leader indossa simboli pan-germanici, e le reazioni di sollievo fanno riflettere (quando il Front National prese il 18 per cento in Francia, nel 2002, eravamo tutti a scandalizzarci; ora la destra estrema prende il 48% in Austria e siamo tutti a dire che il Paese è un baluardo della democrazia: a tanto è arrivato lo sdoganamento degli estremismi in Europa occidentale). Il referendum italiano, molto probabilmente, fa parte di questa deriva. Però c’è anche dell’altro. E sarebbe un errore leggerlo come una condanna definitiva a un destino populista. Così com’è stato ed è un errore analizzarlo come qualcosa che riguarda esclusivamente il diritto, le regole del gioco, la Costituzione.

È una Brexit, ma non lo è del tutto. Da un lato, checché ne pensi l’Economist, è evidente come il vincitore più visibile di questa battaglia sia il Movimento 5 Stelle. La vittoria di Grillo c’è stata, e in qualche modo è una vittoria di Trump, di Nigel Farage, di Putin, delle scie chimiche e dei complottisti sulla Bilderberg. È anche una vittoria di Salvini, certo, che però in Italia non ha lo stesso impatto che i suoi consimili, i vari Le Pen, Geert Wilders, hanno nel resto d’Europa, anche per il fatto che da noi c’è appunto Grillo e dunque i populisti sono divisi (da un lato i complottisti, dall’altro gli xenofobi: altrove vanno insieme). Ma la vittoria del No, tocca ammettere, non è stata soltanto populista: include, oltre a quella della cosiddetta sinistra radicale, i voti di Forza Italia – colpevole di una giravolta davvero antistorica rispetto ai valori su cui era nata – e di una parte del Pd, quella più rancorosa, che si sono espressi in questo modo in funzione squisitamente anti-renziana (un grande classico, è il terzo governo di centrosinistra in vent’anni buttato giù grazie alla complicità di parte del centrosinistra stesso).

Referendum vince il No

Tutto questo per dire che è stato in parte un voto contro l’ordine politico attuale, un voto populista con tutte le accezioni classiche del caso, e al contempo è stato anche un voto contro il cambiamento, un voto conservatore. Il paradosso del No è questo: da un lato c’è il buttiamo giù tutto, buttiamo giù l’Europa, invertiamo la globalizzazione, costruiamo un ordine nuovo sulle ceneri della buona vecchia democrazia occidentale. Dall’altro c’è la paura davanti al nuovo che avanza, una difesa del vecchio ordine politico più deleterio e immobile, quasi sempre criticato paradossalmente anche da quelli che hanno votato No.

La buona notizia, secondo noi, se di “buona notizia” si può parlare, è che in mezzo a tutto ciò resta un 40 per cento da cui ripartire, oltre tredici milioni di voti. Ripartire come? Una cosa è chiara: la sinistra radicale, massimalista, utopica o come la vogliamo chiamare, non fa e non intende fare da argine all’ondata dei populismi, ma anzi la favorisce. Si può scegliere, tra le tante cose lette, anche ingoiando a fatica i tanti status dei nostri contatti su Facebook, un sintomatico editoriale di Ida Dominijanni su Internazionale uscito qualche giorno prima del voto. Nell’editoriale la giornalista manifestava la convinzione che solo votando No al referendum poteva succedere “qualcosa di sinistra”: «È solo il no, con tutti i suoi imprevisti, che può aprirne uno nuovo [ciclo]. Basta partecipare a uno solo degli incontri sul referendum che pullulano ovunque in questi giorni per capire quanto questo sentimento sia vivo nella generazione più giovane, che della costituzione parla al di fuori della narrazione ripetitiva degli ultimi decenni».

italia referendum renzi

Ecco, pensare che percentuali di No come il 70% circa di Sardegna, Sicilia e Campania, o l’80% tra i giovani, siano il segno di uno spostamento a sinistra del Paese, ci sembra uno dei più tipici e classici deficit di miopia di sinistra. Stretto tra la retorica della Costituzione come “testo sacro” di cui ha parlato Claudio Giunta e il rifiuto intransigente di un’idea di sinistra liberale e progressista, il voto della sinistra radicale in Italia (ma anche il comportamento di un elettorato assimilabile in America e in Inghilterra) reitera un vecchio vizio di pensiero: una mancanza di senso di realtà e un infantilismo elettorale che finisce per trasformarsi in un pericolosissimo boomerang: esautorare un governo che tra molte difficoltà ha avuto una spinta modernizzatrice del tutto inedita in Italia in favore di un futuro pieno di incognite e potenzialmente peggiore del presente.

D’accordo, possiamo capire perché leghisti, grillini e populisti di varie risme abbiano votato No. Ci resta più difficile accettare che lo abbiano fatto i soggetti di un blocco culturale teoricamente progressista. La possibilità di comunicazione e di accordo tra una sinistra di governo e modernizzatrice e una sinistra di ispirazione socialista con vagheggiamenti rivoluzionari è probabilmente arrivata al capolinea. È questo probabilmente è il motivo per cui il Movimento 5 Stelle viene visto da quest’ultima, senza troppi sforzi, come una specie di Podemos, più che come la punta di diamante del populismo occidentale e della post-politica. Intanto, non risulta che oggi, all’indomani del voto del Referendum, i media stranieri abbiano titolato “Left wins”, mentre è più facile incappare in svariate declinazioni di “Populism wins”.

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