Attualità

Come la tv ci ha resi più intelligenti

Le serie americane sempre più complesse e l'Italia ai tempi di Gomorra: una conversazione con Aldo Grasso a partire dal suo ultimo libro.

di Anna Momigliano

A un certo punto ci siamo accorti che quello che credevamo stupido in realtà è intelligente. È un fenomeno che Steven Johnson, il teorico dei media statunitense, descrive come “la Curva del Dormiglione”. Nel suo saggio Tutto quello che fa male ti fa bene, Johnson riprendeva una celebre scena del film di Woody Allen che racconta la storia di un tizio ipocondriaco-salutista che si risveglia dopo 200 anni: gli scienziati che lo esaminano scoprono con sommo orrore che nella sua dieta abbondano «strane cose come l’avena e il miele biologico» e mancano alimenti imprescindibili come bistecche di carne rossa, torte di crema e torroni. Il problema, notano i cervelloni del futuro, è che i primitivi del Ventesimo secolo erano erroneamente convinti che i cibi ricchi di grassi facessero male, «da non crederci, esattamente il contrario di quello che sappiamo oggi». La tesi del saggio, che oramai ha più di dieci anni, era che viviamo in un mondo che tende a disprezzare la cultura pop, in particolare i videogiochi e la televisione, mentre in realtà anche questi media contribuiscono a renderci più ricettivi e arriverà il momento in cui ci accorgeremo che è così. Quella che nel 2005 sembrava una analisi contro-intuitiva, o che se non altro puntava ad esserlo, oggi fa tutto un altro effetto.

Specie se si parla di televisione, e specie nella parte del mondo che produce e consuma tv fatta bene (leggi: Stati Uniti, e a seguire a discreta distanza il Regno Unito), il picco della Curva del Dormiglione è bella che superata. Da qualche anno almeno non si contano intellettuali, critici, commentatori e opinionisti che si sperticano in lodi delle serie. In una percezione sempre più diffusa, le serie si sono dimostrate un mezzo capace di offrire una rappresentazione complessa e sofisticata della realtà tanto quanto i libri, se non di più: «The Wire parla di un luogo reale e scava a fondo in problemi reali, Breaking Bad è un raffinatissimo studio del personaggio, ed entrambe le serie sono molto migliori di qualsiasi romanzo in lingua inglese che mi venga in mente sul piano della sofisticatezza, della realizzazione e del coraggio, e non mi stupisce di essere più emozionata dall’ultima serie di cui tutti parlano bene che dall’ultimo libro che tutti definiscono “originale” o “devastante” (cosa che, ovviamente, non è)», scriveva qualche tempo fa Merritt Tierce in un pezzo pubblicato da Studio. E la sua non è certo un’opinione isolata.

Eamonn Andrews

A questa età dell’oro – anche se i due autori preferiscono usare il termine «età della complessità» – del racconto televisivo e al suo conseguente sdoganamento, hanno dedicato un saggio recente Aldo Grasso e Cecilia Penati: La nuova fabbrica dei sogni: miti e riti delle serie tv americane, pubblicato da Il Saggiatore. Un capitolo parla proprio della curva del dormiglione di cui sopra: «Noi spettatori felici di Twin Peaks, Sex and the City, The Good Wife, True Detective, Fargo, Il trono di spade siamo nella fase discendente della Curva del Dormiglione», scrive Grasso (i due critici si sono divisi i capitoli), come a dire che viviamo ormai nella fase storica in cui gli scienziati hanno capito che il torrone fa bene e i cereali biologici fanno male. Viviamo in un’era in cui nessuno, o quasi nessuno, ha più la faccia tosta di dire che la tv rincretinisce, perché «parte del piacere offerto dalla serialità odierna viene dallo sforzo cognitivo richiesto per completare i dettagli». E, a quasi vent’anni dalla messa in onda dei Soprano, oramai ce ne siamo accorti.

Se un pubblico, non solo di élite ma anche vasto, ha imparato a godersi narrazioni sempre più complesso sul piccolo schermo o su un tablet (Lost è andato in onda su Abc, Mad Men sull’Amc: due reti dal profilo assai meno snob di Hbo) è anche «perché venti, trent’anni di tv sempre più complessa hanno affinato le nostre capacità cognitive», scrive Grasso. Se il grande pubblico può apprezzare una superba discesa negli inferi come Breaking Bad (anche qui una creatura Amc, mica roba da pochi eletti), sostiene, è perché ci sono stati tre decenni di show come Dallas e Dinasty, che forse non saranno altrettanto sofisticate però hanno generato un’abitudine alla complessità. In altre parole, se abbiamo raggiunto un punto in cui esiste un consenso sulla dignità di una certa televisione, è anche grazie a prodotti che «gli spettatori felici» di The Good Wife e True Detective difficilmente ammetterebbero di apprezzare. La tv di qualità è anche la conseguenza di una tv popolare complessa.

L’analisi è molto calzante, se applicata al panorama nordamericano; di questo del resto parla il libro. Resta da chiedersi quanto sia applicabile all’Italia. Nell’era di Gomorra, abbiamo superato anche noi la Curva del Dormiglione? La risposta, secondo Grasso, è decisamente no: «Serie come Gomorra e Romanzo Criminale rimangono l’eccezione, sono un grandissimo passo avanti e una scommessa in termini di produzione, ma il vero cambiamento arriva quando cambia la tv generalista. Che per il momento da noi è ferma alle agiografie, insomma alle fiction sui papi, e alle “merendine”», cioè i reality show e i talk di dubbia qualità, dice Grasso in una conversazione telefonica. Ben vengano dunque le serie di qualità sulle reti a pagamento (in questo Gomorra è più l’equivalente dei Soprano che di Lost). Ma la vera Curva del Dormiglione, dice il critico, ci sarà con un Downton Abbey italiano. «Facile a dirsi ma difficile a farsi», ammette, perché «in Italia Downton Abbey non è stata un grande successo di pubblico», tanto che è stata spostata da una rete generalista come Rete4 a un canale nato per il digitale, Iris (è anche su Netflix, anche se manca l’ultima stagione). Il cortocircuito è stato che quella che nel Regno Unito ha tenuto il grande pubblico incollato agli schermi, uno sceneggiato popolare di altissima qualità, da noi è stato percepito come prodotto per le élite. «Il problema è che il grande pubblico inglese è abituato da vent’anni di narrazioni complesse, in Italia siamo ancora fermi a Don Matteo. Si potrebbe anche parlare di Montalbano, che però è una fiction autoriale dove conta più Camilleri che il lavoro di showrunner e sceneggiatori, una cosa molto diversa dalle serie americane o da Gomorra», sostiene Grasso. Traghettarci al di là della Curva del Dormiglione, conclude, spetta alla tv generalista: «Mediaset ha perso molte occasioni, ora sarà la sfida più grande della Rai».

 

Immagini Hulton Archive/Getty Images.