Attualità | Lavoro
Cosa pensare dell’articolo di Massimo Giannini sullo smartworking?
Non il modo migliore per parlare di lavoro, produttività e benessere, tenendo conto di tutte le sfaccettature dell'argomento.

Tra lunedì 7 e martedì 8 ottobre su Instagram e Twitter soprattutto si è acceso il dibattito (ma più che dibattito: le molte voci di protesta) intorno a una column firmata da Massimo Giannini sull’ultimo numero di d di Repubblica. La rubrica, intitolata “L’inganno dello smartworking”, è una critica al lavoro da remoto. Giannini, tuttavia, non parla di dati di produttività (ci arriviamo), ma di una dimensione diciamo sociale e romanticizzata del frequentare il posto di lavoro fisico, vale a dire, in molti casi, l’ufficio.
«Io detesto lo smartworking», scrive nella rubrica Giannini, che negli anni, tra le diverse cose, è stato conduttore di Ballarò, vicedirettore di Repubblica, conduttore su Radio Capital e direttore de La Stampa. Si chiede: «Come ne è uscita l’umanità? Chiusi dentro quattro mura, in lockdown obbligatorio, l’abbiamo svangata (sic) grazie alle meraviglie digitali, e va bene così. Ma adesso? Continuiamo a guardarci sul display e a parlarci con l’airpods (sic)?». Sostiene che il “work from home” sia «più comodo» in quanto «lavori in pigiama, mentre discuti il budget ti sorseggi la tisana, nelle pause giochi col pupo o porti a spasso il cane». Poi: «Certo che ti eviti l’inferno metropolitano del traffico e il logorio fantozziano del badge, e risparmi il pieno di benzina e il tran tran della piadina». Ma queste, aggiunge, «sono abitudini che non hanno prezzo. Uscire presto, nelle albe fredde d’inverno. Guardare negli occhi i colleghi, compreso quello che detesti».
Nel numero 57 di Studio (e online anche qui) abbiamo parlato con la scrittrice Jenny Odell, autrice dei saggi Come non fare niente (Hoepli, 2021) e Salvare il tempo (NR Edizioni, 2024), due testi che parlano di come riappropriarsi del tempo libero, e del tempo della vita, sottraendolo alla tirannia del lavoro. Intervistata da Francesco Gerardi, ha parlato proprio dei nuovi modelli lavorativi ereditati dal tempo del lockdown, parlandone in modi completamente opposti rispetto a Giannini: «La pandemia ci ha costretto a mettere in discussione un modello socioeconomico che fino a quel momento pareva ineludibile: non c’è motivo di continuare a fare le cose come le abbiamo fatte finora se un’alternativa non solo abbiamo visto che esiste ma l’abbiamo anche praticata per due anni interi. Mai come in questa epoca ci sono state così poche persone attratte da quel modo di intendere il tempo del lavoro e il tempo libero che, sembra incredibile dirlo, abbiamo messo a punto e mantenuto senza sostanziali cambiamenti dagli anni Cinquanta a oggi. Nessuno, non solo nella Gen Z ma soprattutto nella Gen Z, vuole più dedicare una parte così grossa del proprio tempo al lavoro. Ma il momento in cui si acquisisce questa consapevolezza è anche quello in cui si scopre un dilemma: per accrescere la quota del tempo libero, c’è bisogno di una sicurezza, di una stabilità economica che le giovani generazioni non si sognano neanche. È quasi doloroso ammetterlo, ma quella contro la mercificazione del tempo – che altro non è che mercificazione della persona – è una battaglia che pochissimi possono permettersi, in senso economico, di combattere. E da qui uno dei paradossi di questo mondo: sempre meno persone credono nel comandamento semi-religioso “il tempo è denaro” ma sempre più persone sono costrette a vivere all’interno di un sistema fondato su questo comandamento».
Negli ultimi anni abbiamo scritto diversi articoli sul tema, e molti studi e libri se ne sono occupati, quasi tutti con un output simile se non uguale: una modalità di lavoro concordata tra dipendente e azienda, in cui il benessere psicofisico del primo sia in primo piano, favorisce sempre anche la seconda, in termini di produttività innanzitutto. Qui, per esempio, parlavamo di un articolo di Ed Zitron sull’Atlantic, scrive nell’articolo “Why Managers Fear a Remote-Work Future”: «Il lavoro a distanza dà potere a chi produce e priva di potere coloro che hanno avuto successo essendo eccellenti diplomatici e scarsi lavoratori, insieme a coloro che hanno avuto successo trovando sempre qualcuno da incolpare per i loro fallimenti. Rimuove la capacità di sembrare produttivo (stare seduto alla scrivania con l’aria stressata o farti vedere sempre al telefono) e, soprattutto, può rivelare quanti capi e manager semplicemente non contribuiscono ai profitti».
In un bel libro uscito all’inizio del 2024 per Bompiani, Lo statuto delle lavoratrici di Irene Soave, il tema del lavoro è analizzato da tutti i lati, e ribaltato e studiato da ogni angolazione. Innanzitutto, mette in guardia Soave, il luogo del lavoro è spesso un luogo di gaslighting, abusi, mobbing e stress congnitivo debilitante. Si contesta anche il termine di “quiet quitting”, utilizzato molto a sproposito nell’ultimo periodo: «No», scrive Soave, «fai solo quello che il tuo contratto ti dice di fare, per le ore in cui devi farlo. Non fai straordinari, non prendi progetti né responsabilità che escano dal tuo orario, non esegui mansioni che non siano indicate sul tuo contratto. Rivoluzionario, no? Be’, no. Intanto fare quello per cui sei pagato e negli orari pattuiti non significa “non lavorare” o “quasi licenziarsi”».
Rimanendo alla settimana lavorativa tradizionale, ovvero di 5 giorni, si sta apprezzando molto il modello 3-2-2: tre giorni in ufficio, due giorni in remoto e due giorni liberi. È uno schema proposto per esempio dagli accademici Lauren C. Howe, Ashley Whillans e Jochen Menges sulla Harvard Business Review. Ma anche chi sta sperimentando la settimana a 4 giorni, come l’Inghilterra, i risultati sono ottimi: ha scritto il Guardian che la stragrande maggioranza delle aziende che ha preso parte alla prova ha scelto di continuare con il nuovo modello di lavoro. Delle 61 aziende che hanno deciso di partecipare alla “prova” di sei mesi, 56 hanno esteso l’accesso alla settimana di quattro giorni e 18 l’hanno resa permanente.
Alla fine dell’editoriale, Giannini cita un articolo del New York Times Magazine che abbiamo letto e apprezzato, in cui Vivek Murthy, responsabile della salute pubblica americana, mette in guardia da una nuova “epidemia di solitudine”. Ma questa solitudine, vorremo dire, è difficile che venga da quel poco “lavoro remoto” che è concesso ai lavoratori, e quasi sempre in modalità ibrida con il lavoro “in presenza”. Piuttosto, pensiamo sia colpa di un tempo del lavoro che non ha più confini, e si prende tutto il tempo che dovrebbe essere dedicato alla socialità. È questo il vero antidoto alla solitudine. Più delle fredde albe d’inverno.