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Un sito sta schedando gli utenti LinkedIn che postano a favore della Palestina
Da circa dieci giorni è comparso un sito, anti-israel-employees.com, che starebbe raccogliendo le prove per dimostrare il supporto di migliaia di dipendenti ad Hamas. La maggior parte di queste “testimonianze”, ormai oltre 22 mila, sono state estrapolate dai profili LinkedIn dei lavoratori. Tra le tante aziende coinvolte risaltano i loghi, per esempio, di Mastercard, Amazon, YouTube, Deloitte, ma anche quelli di tantissime università. Una volta cliccato sull’icona, appare la lista dei dipendenti chiamati in causa con i rispettivi post di LinkedIn. Il problema, come ha evidenziato il New York Times, è che basta passare cinque minuti sul sito per rendersi conto che la maggior parte delle dichiarazioni sotto accusa sono opinioni e semplici slogan come #FreePalestine o #GazaUnderAttack. Il responsabile del sito è il manager di un fondo d’investimento, Itai Liptz, che ha dichiarato che la pagina è nata solamente per esporre chi sosteneva pubblicamente Hamas, ma poi le segnalazioni sono degenerate fino a comprendere post che non hanno a che vedere con il terrorismo.
Il funzionamento del sito è semplice: gli utenti sono liberi di mandare i contenuti che ritengono inappropriati e potenzialmente pericolosi, contenuti che poi vengono esaminati dal team che gestisce la piattaforma prima della pubblicazione. Liptz si è detto rammaricato della “caccia alle streghe” in cui si è trasformato il sito e ha promesso di migliorare i filtri che selezionano i post. L’avvocato che supervisiona i contenuti ha reso noto di aver ricevuto una lettera di diffida da parte di LinkedIn. Il social ha dichiarato di avere le prove che anti-israel-employees.com sta utilizzando una tecnica conosciuta come “web scraping” che violerebbe le linee guida di LinkedIn. Alla lettera è subito seguita la risposta da parte dell’avvocato del sito, che ha tacciato LinkedIn di voler limitare la libertà di espressione. Diversi utenti che erano stati menzionati dal sito si sono sentiti costretti a cancellare i post che avevano pubblicato sui loro profili.