Industry | Moda
Dobbiamo tornare a litigare sulle donne, anche alla fashion week di Milano
Le collezioni della settimana della moda appena conclusa ci restituiscono una visione piuttosto conservatrice della femminilità, con qualche eccezione.
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Prada Autunno Inverno 2025-2026. Photo courtesy of Prada
Qualcuno si ricorda l’empowerment? Quella parola appiccicosa che il dibattito sulla quarta ondata dei movimenti femministi, a cavallo tra il 2017 e il 2019, aveva spalmato ovunque, dalle pubblicità delle saponette alle passerelle? Nel 2018 ci chiedevamo come il #MeToo avesse influenzato la moda – che in quel momento proponeva collezioni abbottonate, silhouette over, spalline pronunciate e tacchi bassi – e quella che sembrava una minoranza lamentava la sparizione del sesso dalle passerelle, qui inteso come una specifica declinazione del desiderio, fatta di scollature, tacchi vertiginosi, pelle esposta,“femminilità”. «Età, difformità e possibilità di cambiare il proprio corpo, e di conseguenza la propria identità, attraverso il make-up, la chirurgia, infine la tecnologia: questi sono i concetti attorno ai quali si sviluppano le cose più interessanti dell’oggi», avevo scritto, pensando (con una certa ingenuità) che la minoranza che gridava alla castrazione delle donne fosse anch’essa parte di un immaginario che ci stavamo lasciando alle spalle. Nel 2025, dopo un anno in cui abbiamo discusso molto di come cambiano i volti, e i corpi, delle donne grazie anche al successo di film come The Substance, le collezioni della settimana della moda di Milano ci restituiscono però delle idee abbastanza riciclate su chi sono queste donne, quali desideri hanno e come si muovono nel mondo. Molte delle collezioni di questi giorni ci sono state descritte come celebrazioni della femminilità, e certamente lo sono, ma nel complesso sembrano volersi allontanare da dibattiti che, ce lo ha insegnato proprio il #MeToo, hanno ottenuto solo polarizzazioni, parole-mantra e guerre culturali tra le più asfittiche mai consumate.
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Le donne piene di domande di Prada
Dopo la grande livella del quiet luxury nel post pandemia, delle donne ci siamo un po’ dimenticati, incasellandole nella girlitudine e spezzettandole nei tanti -core di TikTok, di cui ahimè sono rimasti quasi esclusivamente i consigli su quale lipgloss comprare e i fiocchi. Non è un caso che l’unica collezione di cui si è discusso con toni accesi sia stata quella di Prada, che questi temi li toccava tutti. I co-direttori Raf Simons e Miuccia Prada sono partiti proprio dalla «percezione collettiva della femminilità tipica» con la loro collezione, che si intitolava “Raw Glamour”. Rian Phin su X l’ha definito “scetticismo tecnologico”, un’istanza che si ricollega alla riflessione sull’algoritmo fatta sempre da Prada lo scorso settembre, e che è una reazione al ritorno di un ideale femminile stereotipato, in cui l’ugly chic ha perso definitivamente la sua portata eversiva ed è diventato mainstream (anche Alex Consani si è stancata della parola chic: «Nessuno sa come farlo, mi dispiace ma è così. Non è mettersi una T-shirt e una maglietta», ha detto a Dazed riferendosi al minimalismo svuotato di senso che impera online). Se per Consani, però, la risposta è essere “cunt”, parola ombrello che descrive una femminilità esuberante che si rifà con nostalgia al glamour passato, per Prada la risposta è radicale nel senso opposto.
È difficile che l’abito nero indossato da Julia Nobis in apertura di sfilata possa passare per il “little black dress” che, ci hanno insegnato, tutte dobbiamo avere nell’armadio: in tanti, sui social, hanno parlato di mortificazione delle forme, snobismo, bruttezza. Le coulisse che alterano le proporzioni, le cuciture grezze che danno l’idea di un’immediatezza non costruita, i materiali utilizzati in maniera insolita (com’era stato per il pigiama di pelle nella sfilata dell’uomo a gennaio): questa donna è una bambola che vuole sentirsi diversa, che sta osservando i cambiamenti del suo corpo e forse ne è spaventata ma allo stesso tempo non vuole rinunciare ai gioielli, alle borse, alla skincare o alla medicina estetica, meglio se poco invasiva cosicché non cancelli le rughe di espressione. Forse è angosciata dal tempo che passa, dal mondo che la circonda, dalle altre donne: vorrebbe liberarsi di tutte quelle domande, e delle aspettative degli altri, e il suo guardaroba rispecchia quella volontà. È una dichiarazione d’intenti valida e anche coraggiosa, tanto più per uno dei pochi marchi che ha vissuto negli ultimi anni un successo ritrovato e che molti dei consumatori più giovani ricollegano a oggetti molto precisi (i mocassini, le borse, i cravattini e gli occhiali con il logo, il nylon) ma spesso decontestualizzati.
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La sofisticazione di Bally, Institution by Galib Gassanoff, Jil Sander, Marni e N°21
Anche Simone Bellotti, in quella che stando ai gossip è la sua ultima collezione da Bally, è partito dall’idea di performance, quella che quotidianamente mettiamo in scena nelle nostre vite. Come spesso accade, ci sono ben due termini nella lingua tedesca che esprimono le diverse sfumature di questo concetto e che davano il titolo alla collezione: “Leistung”, ovvero la performance nel contesto lavorativo, quella che può essere misurata dai risultati, e “Aufführung”, la performance come atto di espressione personale. Per raccontare quella tensione, Bellotti si è ispirato all’artista svizzero Luciano Castelli, conosciuto per il suo lavoro eclettico e provocatorio (dalla pittura alla fotografia, dalla scultura all’arte performativa) e il risultato è una collezione dove le silhouette strutturate sono interrotte da esplosioni misurate di elementi differenti, come lo sherling o la pelle: il guardaroba immaginato da Bellotti è contemporaneo, sofisticato, desiderabile, come le sue donne.
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Da segnalare la prima sfilata di Galib Gassanoff, stilista georgiano di origini azere e co-fondatore di Act N°1 (a cui ha lavorato con Luca Lin fino alla Primavera Estate 2023), che ha lanciato il suo progetto Institution nel 2024 e che ha presentato “El” nelle sale del Museo Balgatti Valsecchi. Institution è un progetto ambizioso, «un’organizzazione socio-artistica» in cui la moda è solo una delle forme di espressione: capi su misura che vogliono mettere al centro del discorso il ritmo lento delle lavorazioni artigianali, in particolare quelle con cui Gassanoff è cresciuto. Una tradizione che affonda le radici nelle tante manifatture del Caucaso che l’epoca sovietica ha provato a cancellare ma che resistono ancora: così lane, pellicce, tappeti e maglieria diventano parte di un’offerta concisa ma chiara che non si fa fatica a definire demi-couture. Una delle sfilate più genuinamente eleganti della settimana. Hanno voluto rifugiarsi nella bellezza, o luce, anche Lucie e Luke Meier da Jil Sander per quella che poi si è rivelata l’ultima collezione da loro firmata per il marchio: un addio che è testimone della loro bravura, ma che forse si poteva consumare con più garbo. Francesco Risso da Marni ha invece scelto di dar vita a una residenza artistica nata dall’incontro con Olaolu Slawn e Soldier Boyfriend, un’esplorazione durata un mese che si è conclusa con lo show popolato da molti amici del brand, famosi e non, dove gli abiti, le giacche e i completi erano disturbati da elementi ironici come i ciuffi di pelliccia, i cappucci fiabeschi e i fiori di raso. Da N°21 il punto di partenza erano sì i fiocchi, ma non quelli stilizzati che oggi ricoprono cover dei telefoni, borse e stampe, ma quelli ingigantiti su abiti, scollature e gonne che diventano elemento di decoro a sé, distaccandosi dalla cuteness e abbellendosi di una raffinatezza che altrimenti non avrebbero.
La femminilità sicura di Fendi, Giorgio Armani e Ferragamo, le ragazze di Dolce&Gabbana, Marco Rambaldi e Blumarine
Ha celebrato i cento anni della Maison con una collezione monumentale, finalmente disegnata solo da lei, Silvia Venturini Fendi, che ha mandato in passerella un’idea di guardaroba che esprimeva al meglio quella femminilità spettacolare che è da sempre il carattere del marchio che porta il nome suo e della sua famiglia. Un cast eccezionale che riuniva donne di tutte le età e forme, dalle modelle storiche a quelle virali su TikTok, dove tutti i grandi must Fendi, dalla Baguette alla Peekaboo, hanno avuto il loro momento di gloria: donne ricche, ben vestite, sicure di sé, che ai piedi portano le ciabattine di raso con la zeppetta che ricordano quelle delle casalinghe anni Cinquanta, ma che oggi diventano scarpe da sera, fuori dalle costrizioni domestiche. Dopo la collezione dedicata al balletto della scorsa stagione, Maximilian Davis ha mantenuto la danza come ispirazione, questa volta guardando però al lavoro degli artisti del Tanztheater tedesco e alle espressioni libere delle loro coreografie: una collezione in cui il designer è sembrato più sicuro ed è tornato a parlare un linguaggio che gli è congeniale.
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Anche la donna di Giorgio Armani sa quello che vuole, e cioè un’eleganza senza sforzo fatta di lavorazioni preziose e una palette di colori “minerale”, dove nulla è urlato e tutto sotteso. Poi ci sono le ragazze. Quelle “cool” di Dolce&Gabbana, che assomigliano tanto a quelle che ogni giorno su TikTok raccontano le loro giornate, i loro acquisti e la loro routine di bellezza guardando dritto in camera, e quelle sognatrici di Marco Rambaldi, che amano invece fare thrifting e riciclare gli abiti delle madri e delle nonne, patrimonio di creatività a portata di armadio e tenerezza. La collezione era ispirata dalla figura di Lea Vergine, una delle prime donne italiane a diventare curatrice d’arte e mente dietro alla mostra Memoria Futura a Palazzo Reale nel 1980, che raccontava un gruppo di artiste donne dimenticate dalla storiografia ufficiale. E poi ci sono le ragazze di Blumarine, nell’idea del nuovo direttore creativo David Koma, georgiano di origine ma il cui brand omonimo ha sede a Londra. Era dedicata alle attrici che hanno fatto la storia del cinema italiano, ma si avvicinava di più all’idea di “cunt” preconfezionata dall’internet di oggi di cui parlava Alex Consani.
L’ennesimo reset da Gucci, Versace in transizione e Patti Smith per Bottega Veneta
Oltre agli addii, taciuti oppure brutalmente annunciati, questa fashion week ha visto anche show di transizione, come quello di Gucci, che dopo aver (anche qui brutalmente) «concluso la collaborazione» con Sabato De Sarno, ha comunque sfilato: il rosso è diventato verde, mentre i pettegolezzi su chi ne prenderà le redini si rincorrono. Da Versace, Donatella ha presentato una collezione che è stata definita contemporaneamente «un grandissimo show» (da Cathy Horyn su The Cut) e «un disastro» (da Vanessa Friedman sul New York Times): è davvero la sua ultima collezione? Bottega Veneta, infine, ha ospitato una performance inaspettata di Patti Smith, in attesa del debutto della nuova direttrice creativa Louise Trotter, che lo scorso dicembre ha sostituito Matthieu Blazy dopo che quest’ultimo è stato nominato Direttore artistico di Chanel. Sono arrivata senza aspettarmi chissà cosa, sono uscita commossa e mi si perdoni l’aneddoto: Patti Smith, come mi hanno scritto tutti gli amici che mi hanno giustamente schernito per il mio cinismo, è un’artista talmente grande e trasversale che come ho potuto pensare che non sarei finita a piangere come una cretina?
Nel nuovo quartier generale del marchio in Piazza San Fedele, Smith ha recitato un monologo con cui ha omaggiato Pierpaolo Pasolini e Carlo Mollino, prima di dedicare Because The Night al marito Fred, scomparso nel 1994 e con il quale il primo marzo avrebbe celebrato quarantacinque anni di matrimonio. Patti Smith è quasi un archetipo nella sua femminilità libera, con i capelli lunghi, grigi e spettinati, le mani affusolate che un po’ tremano mentre regge il suo quadernino di appunti, la «nice jacket» messa su per l’occasione, la voce che è sempre quella anche se adesso si mette le scarpe, come mi ha scritto mia madre dopo aver visto la mia storia su Instagram. Senza puntare i riflettori su sé stessa, Trotter ha voluto così segnalare il cambio di passo per Bottega Veneta e forse raccontarci quali sono le donne che le interessano, rendendoci curiosissimi del suo debutto a settembre.