Attualità | Cinema
Dopo il trionfo agli Oscar, ora Sean Baker deve mantenere la promessa di salvare il cinema indie
I quattro premi al regista Anora potranno passare come l'ennesimo contentino di Hollywood oppure l'inizio di un rinascimento indie. Molto dipenderà da quello che farà Baker.
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Mikey Madison in una scena di "Anora", il film con il quale Sean Baker ha vinto quattro premi Oscar
Il giorno dopo la cerimonia degli Oscar è sempre quello dei titoli strillati e delle opinioni forti, quindi non c’è da stupirsi se oggi si parla di Anora come del film che ha salvato il cinema americano: la vittoria del piccolo sul grande, dell’artigianato sull’industria, dell’autentico sul posticcio. Ovviamente non è così e non è così per due ragioni almeno. La prima: non basta un episodio a fare una tendenza, tanto meno nel cinema Usa. La seconda: negli ultimi cinque anni – un intervallo di tempo non amplissimo ma sufficiente – il premio per il Miglior film lo hanno vinto molto più spesso film simili ad Anora.
In ordine cronologico: nel 2021 Nomadland di Chloé Zao, nel 2022 CODA di Sian Heder, nel 2023 Everything Everywhere All at Once di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, nel 2024 Oppenheimer di Christopher Nolan e nel 2025, appunto, Anora. La definizione di “film indipendente” è sempre una difficile da maneggiare (indica un modo di produrre? Di distribuire? Di girare? Tutte e tre le cose assieme?), ma una cosa si può dire con certezza: se Oppenheimer è il kolossal, il blockbuster moderno, allora gli altri film citati in questa brevissima lista possono tutti, per una ragione o per l’altra o per l’altra ancora, rientrare nella dicitura indipendente. Quindi, Anora non è semmai l’inizio di una tendenza ma il suo apice: almeno agli Academy Awards, il cinema indipendente americano non è mai stato così considerato e così premiato. Qui potremmo aprire un altro discorso: un premio vinto in una cerimonia e il sostegno di un’industria, di un sistema, di una cultura sono la stessa cosa? Valgono lo stesso? Perché vista la traiettoria del cinema americano (e non soltanto americano), un malpensante potrebbe dire che gli Oscar sono ormai la spugna con la quale Hollywood si lava una coscienza sporchissima: tenete queste lenticchie placcate d’oro e statevene buoni, fatevele bastare fino all’anno prossimo, la mensa dell’Academy stanotte chiude e non riapre fino al prossimo marzo.
Una vita da indie
Anora come apice di una tendenza, dicevamo. Il fatto oggettivamente straordinario di questa cerimonia degli Oscar è il numero di premi vinti da Sean Baker: Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura originale, Miglior montaggio. Nella quasi centenaria storia dell’Academy, non era mai successo che un regista vincesse quattro premi con un solo film. Solo in un’altra occasione era successo che un regista vincesse quattro premi “individuali” (anche il premio al Miglior film lo è, essendo un premio assegnato ai produttori, e Baker è uno di quelli che hanno fatto la colletta e hanno messo assieme i sei milioni di dollari del budget di Anora) nella stessa serata. L’anno era il 1954 e il regista era Walt Disney, che però vinse le sue quattro statuette con quattro film diversi. Baker ha vinto tutto con Anora, invece, il film che ha usato per ribadire la sua condizione di «indie film lifer», come ha detto nel discorso fatto dopo la vittoria del premio per la Miglior regia agli Independent Spirit Awards. La differenza tra Baker e Zao, Heder e Kwan e Scheinert è stata questa: il lungo cammino che lo ha portato dalla Palma d’oro a Cannes all’Oscar è stato una successione di rivendicazioni a favore del cinema indie.
Rivendicazioni a difesa di un modo di fare cinema, ma anche di distribuirlo: accettando l’ennesimo premio (il Director’s Guild Award per la Miglior regia), Baker ha invitato tutti i registi del mondo a litigare con chi di dovere per ottenere almeno 90 giorni di distribuzione in sala prima di arrivare alle piattaforme. «Torniamo a fare le cose come dovrebbero essere fatte», ha detto Baker, cioè il cinema al cinema. Rivendicazioni a difesa di un modo di vivere i film, in particolare a difesa di quelli che di cinema ci vivono. Baker ha avuto il merito – si potrebbe azzardare anche il coraggio – di parlare di una cosa di cui nessuno ha mai granché voglia di parlare: di soldi. O meglio, dell’assenza dei soldi.
Poveri ma belli
“Assenza dei soldi” è una brutta perifrasi, ma usare la parola povertà in questi contesti è sempre rischioso. Tant’è, però: «Come si fa a mantenersi con pochissimo reddito o senza alcun reddito per tre anni? Pensiamo a un regista fortunato abbastanza da essere riuscito a iscriversi ai sindacati. Un regista che prende i minimi sindacali stabiliti dalla Director’s Guild e dalla Writer’s Guild. Dividiamo questi minimi per tre. Togliamo le tasse e le provvigioni dovute ad agenti, manager e avvocati: che cosa resta? Una cifra che semplicemente non basta per sopravvivere nel mondo di oggi, soprattutto se uno ha una famiglia da mantenere. Io non ho figli ma so per certo che, se li avessi, non potrei fare i film che faccio». Questo un altro stralcio del discorso di Baker agli Independent Spirit Awards. Davvero i registi vivono così male?, si sono chiesti tutti dopo aver ascoltato queste parole. La risposta è sì (almeno, certi registi: George Lucas si è inventato un modo nuovo di fare il suo mestiere con l’unico obiettivo di non morire povero) ed è così da un pezzo, ma solo ora finalmente anche a Hollywood si fa loud budgeting: nessuno ha più paura di mostrare le pezze che coprono il culo e tanti non si pongono più nemmeno il cruccio di coprire i buchi. Persino più esplicito di Baker è stato Brady Corbet, il regista di The Brutalist: sappiate che con questo film ho guadagnato la rotondissima cifra di zero dollari, ha detto, ditemi voi se questo è un regista.
Da un certo punto di vista non poteva che andare così. Da questo lato dell’Oceano Atlantico non abbiamo contezza dello sconquasso che le piattaforme streaming, la pandemia di Covid e gli scioperi di sceneggiatori prima e attori poi hanno portato nel cinema americano negli ultimi cinque anni. Ne abbiamo parlato anche nel numero 60 di Rivista Studio, “C’era una volta l’America“, in un pezzo in cui raccontavamo come la crisi di Hollywood sia diventata la crisi di Los Angeles: se l’industria perde i lavoratori, la città perde abitanti, un circolo vizioso accelerato dal calore degli incendi (se non hai lavoro e ti brucia pure la casa, il trasloco degenera in fuga). In queste circostanze storiche ed economiche, Baker non poteva esimersi: su di lui è ricaduta una sorta di responsabilità storica, quella dell’araldo, del difensore, del protettore del cinema indipendente.
Una promessa è una promessa
Una responsabilità storica che si è preso anche con un certo gusto, a giudicare dai discorsi e dalle interviste, dai sorrisi e dagli ammiccamenti. Il più fotogenico e piacione dei registi indie, l’uomo giusto al momento giusto, rispettatissimo dai suoi e tolleratissimo dagli altri. Se la lotta di classe a Hollywood proprio s’ha da fare, si saranno detti i padroni del cinema, meglio che abbia il volto pacifico di Baker che certi grugni incattiviti che si sono visti nei picchetti durante i giorni degli scioperi. Con quelli come Baker si può lavorare di concertazione, si saranno detti i produttori. E infatti oggi già si discute su cosa riserverà il futuro a questo regista: anche lui si arrenderà al realismo capitalista, come già hanno fatto Chloé Zao (che dopo Nomadland è entrata nel baraccone Marvel dirigendo The Eternals), Berry Jenkins (premio Oscar con Moonlight, soldi in banca con Mufasa) e tanti, tutti i precedenti salvatori del cinema indipendente? Oppure terrà fede alla promessa di essere un indie film lifer?