Fashion Supermarket

A proposito della limited edition di Lidl, che arrivata in Italia da poche ore, è diventata oggetto di culto e già sold out.

17 Novembre 2020

“Ci vorrebbe Tommaso Labranca”. Una frase che si è sentita spesso in questa estate 2020 dopo aver letto Le alternative non esistono, il bel libro di Claudio Giunta che ripercorre storie, personalità, caratteraccio, stramberie e poetica, proiettando Labranca in un trending topic postumo e in un certo senso triste. Qui Labranca ci vorrebbe però proprio per una questione teorica non ancora analizzata e che a noi tornerebbe utilissima. Se il trash è il risultato di un’emulazione fallita, il kitsch è invece il tentativo di produrre un manufatto (o un sistema) che rimuove completamente ogni riferimento al popolare o al volgare, producendo naturalmente cataclismi di cattivo gusto: si pensi all’arredamento per esterni di certe villette di provincia in cui spopolano esotismi balinesi e giapponesi, chaise longue in legno nero, giardini zen nella bassa bresciana. Quel che ci manca è però un nome che definisca quei manufatti che al contrario escludano completamente la parte alta, colta, aulica e scientificamente utilizzino solo codici bassi e pure un po’ cafoni. Che nome dare a quell’estetica che sceglie consapevolmente di votarsi al dozzinale programmatico?
 È il caso di uno dei “must have” di stagione, le sneaker prodotte dalla catena tedesca di supermercati Lidl.

Non solo sneaker, ma anche calzini di spugna, ovviamente bianchi, e ciabatte plasticose da piscina. Sono state le scarpe però, con un mix di blu, giallo e rosso come da logo Lidl, con le proporzioni platoniche e un design da sussidiario, preciso e a modo suo perfetto, vicinissimo a quello che chiunque di noi immaginerebbe se gli chiedessero di pensare a una generica scarpa da ginnastica a trasformarsi immediatamente in oggetti di culto. Con relativo giro di rivenditori sneakerhead che le vede acquistabili, ora che sono esaurite sugli scaffali dei supermercati a 12,99 euro, alle solite quotazioni da arte contemporanea. Succederà lo stesso anche con la prima capsule collection di abbigliamento Ikea, lanciata per ora solo in Giappone, in cui su felpe e T-shirt appaiono mega codici a barre di scaffalature per case in colocazione tra universitari? Sui magazine di moda si definisce questa ondata come estetica del brutto. La verità, più affascinante ma meno politicamente corretta, è che sarebbe più giusto definirla estetica della povertà. Siamo entrati forse in una seconda fase di feticizzazione delle periferie non gentrificate che la moda ha iniziato a nutrire parallelamente, o forse internamente, al proliferare dello streetwear.

Mentre i marchi provenienti dalla skate culture e dall’hip hop iniziavano a trasformarsi in aziende e sfilavano a New York o Parigi, Demna Gvasalia da Vetements e Balenciaga portava in passerella i codici della working class (e che working class, quella dell’ex blocco sovietico) quando non propriamente del disagio e dell’alienazione, a prezzi volutamente provocatori. Le T-shirt DHL di Vetements (qualità pari a quelle indossate da migliaia di dipendenti DHL nel mondo) a 600 euro, i sacchettoni tipo-Ikea di Balenciaga (in pelle, sia gialli che blu, rompendo la regola aurea del colosso svedese “Ti piace gialla? Prendine una blu!”) a oltre 2000. The great fashion business swindle. Eppure qui le motivazioni del successo erano facilmente leggibili, da un lato la provocazione punk della proposta a prezzi no future, dall’altro lo snobismo ostentato di accettare quella provocazione e rilanciarla, comprando e indossando.

Capire cosa abbia scatenato la frenesia alimentare per delle sneaker banali, proposte da un supermercato a prezzi popolarissimi è invece meno ovvio. Forse l’ironia postmoderna dell’idea in sé? Forse l’estetica un po’ kinky del progetto, soprattutto nell’accoppiata ciabatta da piscina con calzino bianco che popola l’immaginario di tanta pornografia gay, tra scally lads e piedoni in faccia, tra innocui giochini di sottomissione da spogliatoio? Forse la finanziarizzazione definitiva della bolla modaiola, che ha deciso di rifuggire qualunque coerenza tra storytelling e prodotto? Chi lo sa, ci vorrebbe Tommaso Labranca.

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