Studio X Mubi

Il bisogno di ridere spiegato da Saverio Raimondo

Intervista al comico conduttore e curatore di Voci italiane contemporanee, la seconda stagione del podcast di Mubi che racconta come è cambiato nel tempo, e perché, il cinema comico italiano.

di Lorenzo Camerini

Fine luglio, imbottigliamenti sull’autostrada, ore da ingannare in coda. Tutto sommato, uno scenario fortunato: l’economia è paludosa, insomma ci sono pochi soldi, molti si preparano a trascorrere le ferie estive sul divano. In vacanza o a casa, è arrivata la stagione con più tempo libero da dissipare. Che fare? Può tornare utile un podcast, meglio se suggerisce film di nicchia ingiustamente dimenticati, magari reperibili facilmente online. Mubi ha appena pubblicato la seconda stagione di Voci italiane contemporanee, condotta e curata da Saverio Raimondo, un podcast per capire come è cambiato nel tempo, e perché, il cinema comico italiano. Cinque episodi disponibili ogni giovedì, a partire dallo scorso, giovedì 18 luglio, con ospiti sempre nuovi. Per saperne di più abbiamo telefonato a Saverio Raimondo, quarant’anni e già un curriculum lungo così, pioniere della nuova scena di stand up comedy italiana, habitué degli studi televisivi (qualche anno fa ha anche condotto, insieme all’ex senatore Antonio Razzi, il programma Razzi vostri), attore, autore, doppiatore e molto altro.

Come stai? Sei già in vacanza?
Ma quale vacanza, sto a Roma, nel mio appartamento. Sono in diretta radio tutti i giorni dalle 18 alle 20 fino al 9 agosto, quindi ancora lavorativo.

ⓢ Dove andrai dopo?
Guarda, mi sa che accetterò degli inviti in giro, mi hanno invitato in Puglia, mi hanno invitato in Calabria. Principalmente me ne starò in Umbria a bordo piscina, a scrivere e riposare una decina di giorni.

Parliamo di questo tuo nuovo podcast, Voci italiane contemporanee. Come è nato?
Mi ha contattato Mubi, il format esisteva già, preparavano la seconda stagione. C’era in programma un cambio di host e di argomento, il nuovo tema scelto era la commedia all’italiana, e hanno immeritatamente pensato a me, così ho accettato.

Sei fan dei podcast?
Sì, ecco… Sappiamo perfettamente che è una bolla speculativa. Di sicuro, resteranno per un po’. Da qui a pensare che siano il futuro dell’informazione e dell’intrattenimento, ce ne passa.

Come avete scelto gli ospiti?
Abbiamo cercato di preparare cinque puntate diverse tra loro. Mi divertiva iniziare con degli stand up comedian che hanno visto da ragazzini i miei stessi film, per capire come questa cosa ha influenzato il nostro lavoro. Quindi ho chiamato Michela Giraud e Edoardo Ferrario. Poi ho convocato Michele Masneri e Andrea Minuz, giornalisti e scrittori, grandi esperti della commedia all’italiana, vanziniani preparatissimi, archeologi e reinterpreti della cinematografia di Risi e Sordi. Ho coinvolto anche Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, sceneggiatori di Boris. E poi Sidney Sibilla, Paola Minaccioni, Valerio Aprea. Insomma, come si fa in questi casi, ho usato i miei contatti. Siamo riusciti a tirare fuori delle belle chiacchierate, senza la pretesa di esaurire un argomento assolutamente inesauribile. Qualche nuovo spunto, qualche nuova riflessione, con un tono leggero.

Direi che ci siete riusciti. Avrei qualche domanda più in generale sulla comicità, se non ti secca. Oggi che le notizie durano un quarto d’ora, per esempio l’attentato a Trump sembra già roba di mesi fa, secondo te è più difficile far ridere?
Non so se sia più facile o più difficile, sicuramente è diverso. L’attualità, nei testi scritti, si perde via facilmente. Bisogna cercare una visione che sia più macroscopica, essere meno schiavi del contingente e riuscire a inquadrare un po’ di più i tempi, i minimi comuni denominatori delle piccole vicende. La battuta sull’attentato a Trump dura quindici minuti, quella sul populismo può avere una vita più lunga.

Il tuo lavoro, insomma, si è complicato.
La cosa più grave oggi, secondo me, è la generale perdita di senso dell’umorismo. Un declino di massa. È bello avere senso dell’umorismo, se non addirittura necessario. Viviamo tempi dove tutti sono sempre molto orgogliosi, c’è questo desiderio continuo di rivendicare qualcosa, impedendo così ogni tipo di autoironia e distacco. Parallelamente c’è un grande invito all’empatia, che sicuramente è necessaria, ma riscoprire l’empatia non vuol dire dimenticarsi del distacco. Questo autunno dell’umorismo fa sì che la satira stia ritornando a essere più elitaria dopo che per anni, recentemente, è stata sotto certi aspetti un fenomeno di massa. D’altra parte, è normale che sia così: la satira è sempre stata un genere di nicchia, e credo che stia tornando a esserlo.

La cosa più grave oggi, secondo me, è la generale perdita di senso dell’umorismo. Viviamo tempi dove tutti sono sempre molto orgogliosi, c’è questo desiderio continuo di rivendicare qualcosa, impedendo così ogni tipo di autoironia e distacco.

Pensi che la decadenza dell’autoironia sia da attribuire a questi diabolici telefoni che abbiamo sempre in tasca? Oltre ai danni inflitti alle conversazioni a tavola, dove ormai per far ridere mostriamo senza imbarazzo agli amici un meme, internet ha contribuito al generale tramonto del senso dell’umorismo?
Non c’è dubbio. È banale dirlo ma il telefono, una protesi di noi stessi, ha cambiato tutto. Ha cambiato il modo di fare sesso, anzi di non farlo, figurati se non ha cambiato il senso dell’umorismo. Il telefono è uno strumento che potenzia, è uno specchietto narcisistico, e va da sé che quando sei ego riferito difficilmente hai una propensione all’autoironia. Il telefono ha compromesso certe capacità. Lo vedo con le nuove tendenze, i nuovi comici su TikTok che in realtà riprendono luoghi comunissimi. Addirittura, oggi su TikTok vanno molto le barzellette. Questa non è una novità, è un ritorno al passato. È come se i telefoni avessero azzerato tutto, e in particolare i codici più sofisticati. Per colpa di determinate dinamiche social, e soprattutto per colpa dell’algoritmo, c’è stato un appiattimento del gusto. Ma l’umorismo è anche disgusto, quindi la trasgressione da qualsiasi tipo di algoritmo. In un certo senso credo che, nella comicità, stiamo ripartendo dall’età della pietra.

Anche nel linguaggio. I comici su Instagram che usano i tormentoni formulari dei social, POV, quando succede questo e allora tu…, eccetera, raramente sembrano gli eredi di Guzzanti.
Perché la comicità ha sempre bisogno di un contesto. La battuta è tale, è divertente, quando è in contrasto o in armonia con un contesto. Il web è un contenitore sempre aperto, senza limiti. Va da sé che un numero comico online, anche quello redatto con più cura, perde di efficacia. Un conto sono i film sulle piattaforme, gli spettacoli sulle piattaforme, ma se un contenuto improvvisamente ti appare sul telefono, i reel su Instagram, i video su TikTok, cose che ti arrivano senza che tu le abbia cercate… sono la morte della comicità. Niente potrà essere veramente divertente su un social network, perché gli manca il contesto per essere incisivo.

C’è poi la questione della vanità. Ovviamente ce ne vuole un bel po’ per salire su un palco e dire “adesso vi farò ridere”, però è una vanità diversa dal puntarsi una videocamera in faccia nella tua cameretta e recitare battute con espressione insincera. Se si vede lo sforzo, non fa più ridere.
Sicuramente bisogna avere una punta di egocentrismo per esibirsi, c’è una forma per certi aspetti di esibizionismo, però quando vai sul palco la richiesta di amore e di approvazione (che poi sta dietro a qualunque esibizionismo) ha la possibilità di essere realmente appagata. Di fronte a un telefono tu stai cercando in fondo delle reaction, che sono a loro volta il surrogato digitale di una reazione umana, però sappiamo perfettamente come il cuoricino può essere semplicemente non dico un errore, ma quasi un tic. Non è davvero una reazione sincera. Se un pubblico di fronte a te ride o sorride veramente, te ne accorgi.

Il telefono ha cambiato il modo di fare sesso, anzi di non farlo, figurati se non ha cambiato il senso dell’umorismo. Il telefono è uno strumento che potenzia, è uno specchietto narcisistico, e va da sé che quando sei ego riferito difficilmente hai una propensione all’autoironia.

Secondo te era più facile guadagnarsi da vivere con il tuo mestiere quindici anni fa, era più semplice renderlo una professione?
Farsi notare oggi, ovviamente, è più facile, si sono moltiplicati i canali. Però mi sembra che ci sia in generale una grande disattenzione. Cioè, poi, sai, in realtà dipende anche da con chi vuoi parlare. Io mi chiedo sempre, chi fa il mio lavoro lo fa perché gli piace questo lavoro o per l’indotto, la popolarità, la celebrità? A me interessa solo fare cose che penso possano essere divertenti nella speranza che siano divertenti, è questo che mi muove. Non mi interessa minimamente far ridere le persone mentre stanno cagando, e tendenzialmente il pubblico online è quello. Quindi mi sono chiesto: io ho voglia di far ridere le persone mentre stanno sedute sulla tazza del cesso? No. Finissero di fare quello che stanno facendo, e poi eventualmente vengano a vedermi dal vivo. Questo sicuramente restringe enormemente il mio pubblico, però così rimangono le persone con le quali ho voglia di parlare, e che hanno più voglia di ascoltarmi.

Nella prima puntata di Voci italiane contemporanee tu, Giraud e Ferrario parlate moltissimo di Fantozzi. Secondo te oggi potrebbe uscire un film del genere?
Allora, sicuramente su una piattaforma no, sappiamo come gli algoritmi siano monolitici. Ogni film comico, e non solo, è figlio dei suoi tempi, quindi Fantozzi oggi probabilmente non sarebbe replicabile. Però resta un film divertente, la comicità di Villaggio non è invecchiata di una virgola. Grazie all’immediatezza del suo umorismo demenziale, che Villaggio portò per primo in Italia, al suo iperbolico senso del grottesco. Nei film di Fantozzi la realtà non arriva mai esattamente com’è. Oltretutto sì, è vero, le donne sono mostruose in Fantozzi. Ma i maschi idem. Secondo me, una cosa che non è stata enfatizzata nelle analisi di Fantozzi è quanto lui non sia in realtà un personaggio positivo. Fantozzi è veramente una merdaccia.

Un pelandrone impenitente.
Esatto. Lui in realtà subisce, è vero, ma subisce perché è l’ultima ruota del carro. Se lui riuscisse a essere promosso, a far carriera, farebbe patire ai suoi sottoposti lo stesso trattamento. Tanto che Pina e Mariangela, gli unici personaggi che in un certo senso sono subordinati a Fantozzi, lui le tratta malissimo. Fantozzi è una brutta persona tanto quanto il Megadirettore Galattico.

Anche i libri di Fantozzi, scritti da Villaggio, sono strepitosi.
I libri sono fantastici. I primi due film, quelli diretti da Luciano Salce, sono una traduzione abbastanza fedele dello spirito dei libri. Dal terzo capitolo, con l’arrivo di Neri Parenti, il personaggio inizia a addolcirsi. Nei libri ci sono anche racconti nerissimi, c’è un racconto, mi pare nella terza antologia, dove si parla di umiliazioni subite da Fantozzi in sala mensa che vanno ben oltre la crocefissione, tocca delle vette di degradazione che, ti assicuro, mi hanno ricordato Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini. E stiamo parlando di un racconto di Fantozzi. Il Villaggio scrittore comico aveva una cupezza, un sadismo molto più disturbanti della trasposizione cinematografica che l’ha reso celebre.

A proposito, visto che nel podcast citate Le finte bionde, film di culto dei fratelli Vanzina, hai mai letto il libro?
No, lo recupero. Vedi, una cosa che alla letteratura italiana manca, forse un po’ per tutta questa seriosità che ci siamo sempre dati… ci sono pochi esemplari di letteratura umoristica. Siamo sempre lì a citare Flaiano, Campanile, i soliti, adesso c’è un po’ la riscoperta di Marchesi…

E di Fontana.
Grande Walter! Anche Fruttero e Lucentini, ricordati principalmente come scrittori di gialli, in realtà sono stati dei grandi umoristi. La trilogia del cretino è una delle cose più belle che siano mai state scritte in Italia. Però sono poche, alla fine, le penne che si sono esercitate nella scrittura comica. Voglio menzionare di nuovo Paolo Villaggio, uno dei pochissimi comici scriventi in Italia.

C’è l’inspiegabile eccezione di Giobbe Covatta, che vendette più di un milione di copie del suo libro negli anni Novanta.
Lì subentra un discorso speculativo del mezzo televisivo, dei libri di comici televisivi che decollano sugli scaffali dell’umoristica italiana. Ma non ritorniamo al discorso delle bolle speculative.

A me annoierebbe da morire poter utilizzare solo cacca e pipì per creare scompiglio. Visto che adesso ci sono molte più parole proibite e trasgressive, oltre a cacca e pipì, be’, per me è una manna dal cielo. Il mio lavoro, come dico sempre, è fare la corsa a ostacoli. Se ci sono più ostacoli, ho più modi di sfoggiare il mio atletismo.

 

Ultima domanda, la più scomoda: è vero che non si può più dire nulla?
Ma non si è mai potuto dire nulla! Cambiano le cose che non puoi dire, ma chi dice “oggi non si può più dire nulla” o è in malafede o è stato in coma negli ultimi duemila e ventiquattro anni e si è risvegliato adesso, perché da che mondo e mondo sono sempre esistiti i tabù, le censure, le percezioni. Sono cambiate un po’, ma non è la prima volta che ci sono cose che non si possono più dire. E i comici che se ne lamentano, mi chiedo che lavoro facciano. Il giullare ha sempre avuto il compito di dire le cose che non si possono dire. Quindi, per quanto mi riguarda, è molto stimolante fare quello che faccio in un’epoca per certi aspetti oscurantista. A me annoierebbe da morire poter utilizzare solo cacca e pipì per creare scompiglio. Visto che adesso ci sono molte più parole proibite e trasgressive, oltre a cacca e pipì, be’, per me è una manna dal cielo. Il mio lavoro, come dico sempre, è fare la corsa a ostacoli. Se ci sono più ostacoli, ho più modi di sfoggiare il mio atletismo.

Fotografia di Anna Morosini