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Sanremo, la Mecca italiana dell’autopromozione

Il Festival è anche l'evento in cui il marketing tocca le vette del kitsch, con cantanti che per una settimana si improvvisano ristoratori, gelatai, enologi e pure psicologi.

di Francesco Zani

Margherite Yourcenar nelle Memorie di Adriano scrive che ci sono dei momenti della vita in cui vediamo ciò che più tardi diventeremo: nella prima pausa pranzo della prima settimana della mia vita a Sanremo ho avuto la necessità di ordinare un pranzo da asporto e il rider che me l’ha consegnato era brandizzato glovo dalla testa ai piedi ma al collo portava un pass del Festival con scritto Press. Ci ho pensato mentre mangiavo il mio panino ghiacciato, e in quell’istante ho visualizzato esattamente cosa sarebbe successo per tutta la settimana, una processione continua di persone ciondolanti, coccolate da un pass.

Ci sono quelli Rai, ci sono quelli delle altre testate, ci sono quelli per entrare alle feste, nei pop-up, nei villaggi, mancano solo quelli per il Casinò dove invece basta un documento di identità e si aprono le porte di roulette e black-jack. Alcuni signori sanremesi domenica sera si lamentavano del fatto che una volta vigeva un dress-code molto rigido ma ora tutto si è annacquato, soprattutto nei giorni della kermesse. Non erano risentiti, ma quasi rassegnati e dimessi, dentro il lungomare di vicoli, salite, ristoranti (non buonissimi, si può dire?).

Durante la settimana del Festival a Sanremo non ci sono le feste ma c’è una festa, un party continuo ed eterno che comincia la domenica sera prima dell’inizio e non finisce più. Cambiano le insegne, le location, i claim – spesso orrendi – i brand ma la formula magica si ripete con uno stilema fisso: aperitivo con dj-set, qualcosa da mangiare offerto dallo sponsor e poi open bar. Ci sono sempre le stesse persone, tutti soldati di un esercito che si ritrova in massa qui, migranti culturali, musicali e pop da Milano e Roma fino a questa città quasi irraggiungibile. Ogni tanto arrivano i cantanti con i loro entourage, passano come ologrammi, fanno una foto e poi via per un passaggio da un’altra parte con il teletrasporto speciale di questi giorni.

A livella di Sanremo non è la morte come diceva Totò ma è proprio il Festival stesso che impasta tutti insieme, conduttori e cantanti, ospiti e giornalisti, croupier e podcaster, tecnici del suono e manager, baristi e ballerine. Al cerchio della vita non sfugge nessuno. Si comincia la serata già stanchi, si dondola la testa perché nessuno ne può più, qualche commento sulle canzoni, una risata, due rimpianti di Amadeus e al terzo gin tonic si torna a salire di un’ottava che tanto domani qualcuno si alzerà. C’è una malinconia di fondo, illumina tutto come una lampada bassa, non diventa mai disperazione ma rimane sempre sul baratro della solitudine. A cosa serve tutto questo? Qual è lo scopo di così tanta vacuità? È il Festival di Sanremo e quello che succede sul palco è il nocciolo di una pesca al quale sta attaccata la polpa di un frutto diventato l’evento nazionalpopolare più importante di tutti.

(Tra i Fedez, i Damiano David, le Elodie, gli Stefano Borghi, i Cassano e gli Adani, alle feste appaiono anche figure mistiche come Clemente Russo, un uomo che ha vinto due medaglie d’argento ai Giochi Olimpici e poi ha partecipato all’Isola dei Famosi. Al confine dei privé si guarda in giro sperando che qualcuno lo noti, gira avanti e indietro e poi si trincera nell’open bar come tutti i comuni mortali).

Durante il giorno succedono esattamente le stesse cose che accadono di notte, ma illuminate dal pallido sole che filtra dalle nuvole. Le piccole vie del centro di Sanremo sono invase di postazioni video, di radio che trasmettono in diretta, di hotel allestiti come studi, di stand, di pop-up store, di speakeasy, di esperienze, una parola abusata e spaventosa di questo Festival.

Il cubo più inquietante è quello bianco con la scritta BATTITO che per due giorni ha riprodotto in loop il battito del cuore di Fedez e che poi ha lasciato spazio alla canzone del rapper. Domenica sera una signora sulla cinquantina con i capelli rossi cotonati ci è entrata dentro e sporgendosi mi ha fatto segno di “ok, il cuore di Fedez sembra regolare, tutto bene“. Clara ha aperto la “Farmacia dell’amore”, un apprezzabile spazio di aiuto psicologico e supporto in cui però si deve prenotare con largo anticipo, mentre i Coma_Cose hanno inaugurato fin dal primo giorno lo spazio Heart, ispirato alla loro canzone, nettamente il pezzo più sentito e ascoltato alle feste e per strada. La Gelateria Amarcord di Sarah Toscano è la più anonima, passandoci davanti sembra una vera gelateria e non una experience del Festival. Tony Effe ha raddoppiato, nel nome della romanità: oltre alla sinergia con il cuoco tiktoker Ruben Bondì, che gestisce uno street food speciale sul lungomare sempre affollato e pieno di gente (soprattutto perché la maggior parte del tempo si mangia gratis), anche un localino in pieno stile Roma by night anni ’70. Bresh gioca in casa ed è riuscito a farsi intitolare una piazza: piazza Bresca è diventata piazza Bresh, mentre il mistero dello speakeasy di Achille Lauro non si è ancora spento. Dovrebbe essere in via Gaudio, qualche immagine social è pure circolata, soprattutto nella notte tra mercoledì e giovedì, vista con la fila di attori e ospiti del Festival che provavano a entrare e dei buttafuori non esattamente oxfordiani che li invitavano alla calma. Rimane la vaga descrizione fornita dall’ufficio stampa: «Sede di incontri e discussioni su temi importanti uniti a degustazioni dei cocktail preferiti dal cantante».

Il livello degli eventi si è spinto così in alto nella scala del kitsch che giovedì sera una trentina di persone affollavano una concessionaria di auto per assistere a un talent musicale tra giovanissime cantanti. Il miglior equilibrio tra autopromozione e poesia però, lo ha raggiunto Dario Brunori, che ha organizzato un brindisi in un’enoteca del centro offrendo a tutti i suoi vini. Brunori ha portato un pezzo di sé tra i vicoli di Sanremo, a un certo punto ha imbracciato anche la chitarra suonando per tutti una canzone in acustico e poi se n’è andato. Il momento più iconico? Quando all’annuncio della classifica parziale del giovedì è comparso il suo nome e tutti hanno esultato in strada come per un gol della Nazionale.

Sarebbe bello riuscire a quotare quanto vale ogni singolo angolo della città, ogni airbnb in affitto, ogni sottoscala, ogni albergo, il suolo pubblico su cui montare le strutture dentro cui rifarsi il trucco o assaggiare un amaro. Un reportage umano e sociale ma anche economico da far girare la testa, perché l’odore è quello dei milioni di euro. Sanremo è un diorama godereccio sostenuto dai brand che sbarcano in Liguria per fare post sponsorizzati, per vendere e vendersi. Il Festival è diventato l’unico posto in cui essere durante questa settimana ma come i grandi classici della vita è diventato anche un momento dell’esistenza. Insieme a “parliamone dopo Natale” o “dopo “Ferragosto” è nato “parliamone dopo Sanremo”, una pausa della vita in cui tutti mettono da parte angosce e miserie nel nome di 29 cantanti, un conduttore e qualche ospite patinato.

Dal regno di Amadeus, il Festival è diventato non solo un prodotto televisivo ma anche e soprattutto un evento social e Conti lo sta portando avanti quasi allo stesso modo – solo in modalità 1.5x – e questo cambiamento continua a riflettersi anche sulla città. I sosia bolliti di Pavarotti e Liz Taylor camminano sempre più bolsi perché al loro posto ci sono i creator che alimentano la nostra bulimia di contenuti, di commenti, di pagelle, di meme e di tweet.

Sanremo è diventato moderno, cool, fashion ma è anche il palcoscenico settimanale di una generazione che si arrangia per lavorare con la cultura, con le riviste, con i giornali, con la radio. C’è un momento della notte sanremese dopo la fine delle serate, quello dei pochi che resistono fino a vedere il dopo Festival, in cui tutti cominciano a tornare a casa. Chi fa poca strada e alloggia in centro, chi invece deve percorrere tutto il lungomare e arrampicarsi su una delle salite della primissima periferia. È il popolo di Sanremo, cittadini settimanali di una città che si consegna alla malinconia tra il suo presente luccicante. “In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità – cantava De Andrè – a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti fa”, e ognuno qui danza da solo, come tanti anni fa, almeno fino a sabato notte prima di sentire il vincitore e smontare tutto per tornare alla vita normale.

Foto in copertina di Jacopo Raule (via Getty Images)