Attualità | Società

Lotta di classe a Roccaraso

Perché si è parlato così tanto della “invasione” dei napoletani nella località sciistica abruzzese? Perché l’evento contiene in sé una grande quantità di temi, dall’iperturismo al classismo.

di Cristiano de Majo

Per anni, anzi per decenni, la ridente località abruzzese di Roccaraso è stata la meta sciistica dei napoletani insieme a Rivisondoli, Pescocostanzo, e altri paesini dei dintorni, con la differenza che Roccaraso era il più vicino accesso al mitologico comprensorio dell’Aremogna, quindi il punto migliore per chi voleva davvero sciare. Essendo lo sci un’attività tendenzialmente costosa e borghese, Roccaraso è stata anche per anni, anzi per decenni, sinonimo di “Napoli bene”, un po’ come se fosse una Capri (o una Costiera) invernale, oppure, usando tutte le virgolette del caso, una specie di “Cortina del sud”, pur non risultando, siamo sinceri, un posto particolarmente pittoresco o esclusivo. Per noi napoletani piccolo e medio borghesi, la casa a Roccaraso è stata uno status a cui ambire, magari soltanto assaggiato e agognato il tempo di un weekend, ospiti di qualche amico più fortunato che ce l’aveva e a cui magari i genitori la lasciavano usare se non ci andavano loro, fatte quelle due ore e mezza di macchina – comunque meno che da Milano a Livigno – piene di tornanti, con sosta obbligata in un posto, che mi pare si chiamasse Lo scoiattolo, a mangiare arrosticini. Ma per noi, che non avevamo mai sciato o quasi, il luogo esercitava un fascino minore, se non superfluo, da visitare giusto per intuire quel simulacro di atmosfera alpina a latitudini altrimenti impensabili.

Per noi, che a Roccaraso non avevamo vissuto né le settimane bianche vanziniane anni ’80 e ’90, né il successivo avvento degli snowboard (se non assistendo i nostri amici che acquistavano outfit colorati e molto baggy nei negozi di riferimento), la località è rimasta intrappolata in qualcosa a metà tra un ricordo impiantato dal cervello di un altro e l’amara constatazione della scarsa mobilità sociale meridionale. Almeno fino allo scorso weekend. Quando Roccaraso, sorprendentemente, è salita, come si dice, agli onori delle cronache per l’invasione non esattamente pacifica di masse di gitanti napoletani, richiamati a quanto si capisce dalla nota “creator” Rita De Crescenzo nel ruolo della pifferaia magica. L’”Evento Tossico terrestre”, per parafrasare DeLillo, è consistito in oltre duecento pullman organizzati che hanno portato a Roccaraso nell’ultimo weekend di gennaio, complici offerte a prezzi stracciati comprensive di colazione al sacco, circa 20mila persone, e alla successiva allerta dell’amministrazione locale con provvedimenti volti a evitare una nuova invasione nel primo weekend di febbraio (targhe alterne, controlli della stradale, coinvolgimento della Protezione civile). Restrizioni che hanno poi prodotto una risposta uguale e contraria – del tipo “veniamo lo stesso” – come tale Ninotto che su TikTok assicurava di essere già pronto a far partire non so quanti pullman da piazza Garibaldi «per fare l’invasione», abbassando ancora di più il prezzo del biglietto e aggiungendo alla colazione al sacco pure un cornetto con la crema chantilly. Risultato, i giornali dicono “un flop”, con “solo” 60 pullman arrivati nella giornata di domenica in una Roccaraso con la neve sciolta.

Forse se ne parlerà ancora, ma già il fatto che del caso Roccaraso in questi giorni se ne sia parlato tantissimo, merita almeno una domanda: perché così tanto? È che “l’evento” ha avuto il potere di concentrare una impressionante quantità di temi e di dibattiti: l’overtourism, comprensibilmente (di cui peraltro la città di Napoli è vittima più di Roccaraso), ma anche il potere dei social di influenzare i comportamenti degli umani e, non ultimo, il sempre lamentato razzismo nei confronti dei napoletani da parte dei restanti italiani. Tra questi ce n’è uno, più laterale, che devo dire mi ha particolarmente sorpreso. Ed è l’improvviso interesse per la neve da parte, permettetemi il termine un po’ classista, se non elkaniano (cfr. “Lanzichenecchi”) – ma davvero non ne trovo un altro di maggiore tatto – delle fasce popolari. Che, a mia memoria, non hanno mai manifestato verso la montagna qualche tipo di attrazione, almeno a Napoli. È sempre stato il mare l’habitat di elezione del “popolo napoletano”. Il mare e il sole naturalmente, la spiaggia, la “varca”, lo scoglio. Proverbiale, in questo senso, la Pasquetta a Ischia, celebrata in una vecchia canzone di Tony Tammaro (“Il rock dei tamarri”), che per modalità e spirito distruttivo ricorda l’invasione di Roccaraso, anche se con la caratteristica di non superare i confini della provincia, risultando così meno visibile e meno scandalosa agli occhi dell’italiano medio.

Vi sembrerò ironico e sprezzante, ma vi assicuro che al contempo sono anche disgustato di fronte ai giudizi pesantemente razzisti che ho visto dilagare sui social. Pure essendo uno dei più leggeri, «Dovrebbero alzare dei muri per non farvi uscire dalla Campania» rende l’idea. È un pregiudizio diffuso, che peraltro consolida nel napoletano la convinzione vittimistica di essere oggetto di pregiudizio, in un loop infinito e infernale da cui è impossibile uscire. Ma davvero mai come in questo caso si è avuta la sensazione che i napoletani siano stati oggetto di generalizzazioni e reductio ad unum, pure ammontando – ed è anche ridicolo ricordarlo – a circa tre milioni di individui.

Mi sono chiesto, dicevo, da dove nasca questa infatuazione nordico-appenninica (in mancanza di Alpi), trovando però risposte incomplete o solo indiziarie. C’è sicuramente questo curioso fenomeno generale (di cui abbiamo parlato qui) per cui TikTok pare aver aumentato l’interesse per la neve e lo sci, generando comportamenti imitativi anche in chi la neve e la montagna non sa neanche dove si trovino. C’entra probabilmente una forma di consumismo alimentata dallo spazio dedicato quest’anno da alcune grandi catene come Zara e Oysho al cosiddetto skiwear, che in una bizzarra inversione spingono a comprare tute, doposcì e quant’altro generando poi la necessità di usarle. Ma c’è anche una rivendicazione para-politica nel tamarro che si lancia alla conquista della montagna della Napoli bene. Esattamente come c’è una rivendicazione para-politica a Milano nel maranza che si allontana dalla periferia in cui vive per frequentare piazze del centro come Gae Aulenti. A nulla servono i richiami alla civiltà del celeberrimo deputato Borrelli, diventato ormai una maschera (nel senso proprio di maschera di Carnevale), antagonista dell’altra maschera, quella storica del napoletano–Pulcinella. «Tu pensi che questo spazio sia tuo e io te lo vengo a rovinare, a portarci i miei usi e costumi e a darti fastidio» è il manifesto interiorizzato di questa rivoluzione. Brutti, sporchi e turisti.

La cosa poi più surreale e distopica è che tutto questo si svolga proprio nel momento in cui il cambiamento climatico ha reso la neve una merce rara, tanto che si è costretti a sparare quella artificiale per permettere alla gente di sciare. Quanto c’entra l’ansia climatica è impossibile dirlo. Si sarebbe tentati di dire poco o nulla. Eppure questa sensazione da racconto di Ballard o da film di Bong Joon-ho (Snowpiercer o Parasite), seppure imbevuti di commedia monicelliana, di masse che si rivoltano per un ultimo scampolo di neve, è difficile togliersela dalla testa. Dire che il popolo napoletano non si comporta a modo va bene. Dire, come fanno i napoletani istruiti, che Rita De Crescenzo è un esempio negativo ha senso. Dire che l’iperturismo va fermato è giustissimo in tutti i sensi. Dire che molti italiani coltivano una forma di razzismo strisciante verso i napoletani non è così lontano dalla verità. Ma di fronte a queste apocalissi sociali, comunicative e ambientali, il problema è proprio questo: le risposte vanno tutte bene perché non si hanno risposte. Ed è impossibile decidere da che parte stare.