Bob Wilson, la Pietà di Michelangelo al Castello Sforzesco

Intervista allo scenografo e artista, che al Salone del Mobile di Milano porta Mother, la prima delle tre installazioni culturali di questa edizione.

10 Aprile 2025

In occasione del lancio del decimo numero, Urbano ha realizzato un contenuto extra esclusivo per il web che siamo felici di pubblicare qui su Rivista Studio: un’intervista a Robert Wilson, maestro indiscusso della luce e della scenografia contemporanea. La sua Mother, un dialogo con la Pietà Rondanini di Michelangelo al Museo Pietà Rondanini – Castello Sforzesco, è la prima delle tre installazioni culturali del Salone del Mobile 2025. Un’opera che è spazio e attesa, silenzio e riflessione, tra arte, luce e suono, che si avvale delle musiche del compositore estone Arvo Pärt. «La luce non è solo un elemento tecnico, è una presenza viva, un vero e proprio protagonista» racconta Wilson. Mother nasce da una riflessione profonda sull’incompiutezza e sulla spiritualità, sul rapporto tra spazio e tempo. L’installazione, a ingresso su prenotazione, ha aperto al pubblico il 6 aprile in concomitanza con la Milano Art Week e resterà visitabile fino al 18 maggio.

Mother è un omaggio alla luce, all’arte e alla città. Come è nata l’idea di questo progetto e in che modo il capolavoro incompiuto di Michelangelo ha influenzato la sua visione?
La luce è ciò che dà forma allo spazio. Einstein diceva che la luce è la misura di tutte le cose. Per me è il punto di partenza. Non è solo un elemento tecnico, è una presenza viva. Non è un dettaglio da aggiungere dopo, è l’inizio di tutto. Ho percepito un’energia potente, una presenza quasi mistica. Forse proprio il fatto di essere incompiuta la rende così straordinaria. È come una finestra aperta, uno spazio sospeso tra il visibile e l’invisibile. Mi ha regalato un tempo diverso, uno spazio nuovo in cui pensare, la Pietà non ha bisogno di una vera e propria scenografia. Ha solo bisogno di uno spazio, di un respiro, di silenzio, perché chi la osserva possa perdersi nei propri pensieri».

Lei ha detto che la luce è il punto di partenza di ogni suo lavoro e che lo spazio, senza luce, non esisterebbe. In Mother, come ha lavorato con la luce per dialogare con la Pietà Rondanini? Come si relaziona, poi, l’installazione con lo spazio del Castello Sforzesco?
La Pietà non ha bisogno di una vera e propria scenografia. Ha solo bisogno di uno spazio, di un respiro…

La musica di Arvo Pärt, con cui ha già collaborato nel 2015 per Adam’s Passion, accompagna l’installazione. In che modo la dimensione sonora si intreccia con la quella visiva in quest’opera?
La Pietà ha bisogno di silenzio, perché chi la osserva possa perdersi nei propri pensieri. E allora ho pensato alla musica di Arvo Pärt. La sua musica restituisce il profondo senso interiore di ascolto del silenzio. C’è qualcosa di comune tra la sua musica e questa scultura: un senso del tempo che si dilata, uno spazio che si apre e accoglie. Insieme, arte e musica non raccontano, non spiegano: semplicemente, ci permettono di provare emozioni».

Il concetto di “non finito” è centrale in Mother, così come nella scultura di Michelangelo. Qual è il valore di questa dimensione aperta e sospesa nell’arte e nella sua poetica?
Il fatto che ci sia dell’incompiuto lascia aperta una finestra. Tutte le grandi opere non sono mai finite, cambiano continuamente, sono incompiute. L’Amleto di Shakespeare, per esempio: puoi leggerlo in una notte e la notte successiva trovarlo completamente diverso, è qualcosa su cui continuare a riflettere. Anche al mio Amleto, di trent’anni fa, continuo a pensare, nella mia testa è incompiuto».

La Pietà Rondanini illuminata da Robert Wilson (foto di Luciano Romano)

La Pietà Rondanini illuminata da Robert Wilson (foto di Luciano Romano)

Ha raccontato di aver osservato la Pietà Rondanini per più di un’ora prima di alzarsi e camminarle intorno. Qual è stata la prima domanda che le ha posto la scultura? E qual è stata la sua risposta?
Aveva un potere straordinario. Aveva tutta la mia attenzione e una sorta di mistero. Mi piace stare in sua presenza. Mi ha dato il tempo di pensare. Il motivo per cui lavoro è quello di porre domande, di dare il tempo per chiedersi che cos’è qualcosa, non per dire che cos’è. La cosa più importante per me è ciò che si vive».

Lo sguardo di Michelangelo è il titolo del cortometraggio in cui il regista Antonioni osserva il Mosè di Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli, a Roma. Come definirebbe, invece, il suo di sguardo nei confronti del maestro?
Il capolavoro di Buonarroti muove in me molte cose. Ha a che fare con mia madre, e allo stesso tempo con tutte le madri. Io credo che qualunque sia la nostra provenienza – Africa, America Latina, Alaska, Cina – la figura di questa madre è un qualcosa che tocca tutti noi. Ho provato un profondo legame emotivo con la figura della “Madre” e con le associazioni che questa figura ha avuto nel corso della storia e che ha oggi. È un mito universale».

Lei ha lavorato con artisti di discipline e sensibilità molto diverse, da Philip Glass a Laurie Anderson, da Tom Waits a Susan Sontag. Con quale artista del passato avrebbe voluto collaborare? E sul panorama contemporaneo, invece?
Ho lavorato con tanti artisti, tanti compositori. Mentre la maggior parte dei drammaturghi propone un teatro di parole, i miei spettacoli si vedono e si ascoltano. Ma non per questo si sottraggono a un confronto con il testo scritto. Mi sono misurato con testi di Shakespeare, di Cechov, di Burroughs, di Heiner Müller… Heiner disse, alla fine della sua vita, che ero il suo regista preferito, quello di cui preferiva la direzione del suo lavoro. Non so se importi un artista specifico ma ciò che è sempre importante è vedere quello che c’è dietro le parole e dietro l’arte di ogni tempo. Dobbiamo mantenere un equilibrio di interessi, proteggendo l’arte del nostro tempo con l’arte del passato. È importante rimanere aperti. È importante vivere con l’arte e la cultura. Se perdiamo la nostra cultura, perdiamo la nostra memoria».

Il teatro rappresenta una delle sue dimensioni di attività. Che significato assume oggi la messa in scena in un mondo dove le proiezioni, le performance, le rappresentazioni, complici le piattaforme e i social media, si sono moltiplicate?
Per me, una delle cose fondamentali del teatro è che dovrebbe essere accessibile a chiunque; l’uomo della strada o l’uomo di Marte dovrebbero essere in grado di entrare a teatro e apprezzare qualcosa. Susan Sontag ha detto nel suo saggio Contro l’interpretazione che “il mistero è nella superficie”. Credo che sia vero, che in qualche modo la superficie di un’opera debba essere misteriosa e accessibile. Che si tratti dell’Amleto di Shakespeare o dell’Alceste di Gluck, deve esserci qualcosa di molto semplice che ci permette di entrare.

Guardando al futuro, quali sono le sfide e le possibilità più interessanti per il mondo della scenografia e della luce nell’arte contemporanea? In termini di tecnologie, con quali vorrebbe sperimentare per i suoi progetti?
Oggi dobbiamo stare attenti a non diventare troppo specializzati e stretti. Se sei un artista è importante conoscere le tecnologie, la scienza, la matematica, l’antropologia. Ho sempre sperimentato con la tecnologia, utilizzavo un robot in Doctor Faustus, già nel 1992. Il campo nel quale si muovono gli artisti deve essere aperto, spalancato.

di Studio
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