Cultura | Architettura

Una rivolta architettonica per impedire alla bruttezza di conquistare la città

Rivolta Architettonica è il movimento internazionale che vuole fare di bellezza, sostenibilità e socialità le priorità della progettazione urbana: ne abbiamo parlato con due dei referenti italiani.

di Enrico Ratto

L'Humboldt Box (a destra) costruito accanto al Duomo nella Schlossplatz di Berlino. Facile capire perché sia uno degli edifici più odiati della città (Foto di Sean Gallup/Getty Images)

Che scherzi fa l’ottimismo, parli di rivolte e subito pensi al futuro, a scenari ancora non visti e nemmeno immaginati. Ma, appunto, è solo un’abitudine. La community online Rivolta Architettonica sottolinea di non essere passatista, ma il perno delle critiche che muove all’architettura contemporanea – con i suoi edifici sempre troppo verticali, in città che vengono definite assemblate – è che ormai la bellezza si trova solo nei centri storici, certo non nei quartieri di nuova concezione, che con i loro grattacieli in vetro e cemento soddisfano solo l’ego degli architetti e delle amministrazioni locali. Il vernacolare è bello e funziona, che se ne dica. Il movimento è nato in Svezia, fondato da Michael Diamant nel 2016 con il nome di The Architectural Uprising e si è sviluppato in comunità spontanee su Facebook e Instagram, distribuite dall’India al Brasile, dal Messico all’Australia, oltre che in numerose città d’Europa. Abbiamo incontrato due tra i referenti italiani di Rivolta Architettonica, Giacomo Diego Diana (fondatore) e Matteo De Simone, tra gli amministratori del gruppo.

Partiamo da voi. Siete una community di architetti?
Assolutamente no, e questo è un punto fondamentale del movimento. Il movimento propone una democratizzazione dell’architettura, dal momento che crediamo che l’architettura sia la più importante delle arti.

Addirittura.
Non la più raffinata, né quella che richiede maggiori competenze. Ma è la più importante perché è quella più prepotente. Puoi spegnere la musica, puoi smettere di guardare un quadro, puoi non entrare in un museo che ospita una certa scultura. Ma l’architettura plasma l’ambiente in cui viviamo, determina il nostro piacere estetico e la fruibilità dei luoghi.

Infatti gli architetti – e gli urbanisti – sono tra noi per rendere vivibili, e se possibile più belli, spazi che altrimenti non lo sarebbero.
Ma allora perché le persone quando escono da casa non si riuniscono nel quartiere palazzinaro del Dopoguerra e neppure nei quartieri distopici di recente costruzione? Si riuniscono nei centri storici. I centri storici rappresentano un contesto armonico e gradevole. Spesso i nuovi quartieri sono quelli che l’opinione pubblica e il senso comune definiscono in modo molto semplice: un pugno nell’occhio.

Ma se gli architetti non avessero osato – prendiamo un esempio facile: Renzo Piano – oggi non avremmo il Beaubourg, dove metà dell’area è stata destinata alla “piazza”, idea italiana molto tradizionale e lì riproposta con successo.
Non si tratta di cristallizzare l’architettura secondo gli stilemi dell’Ottocento o del Settecento e non evolversi più. Non siamo dei passatisti. Crediamo semplicemente che l’architettura debba tenere conto anche della tradizione. Quando vediamo il Foro Romano, e vediamo il Vittoriano degli anni Venti, e intorno le torri medievali, le cupole barocche, le antiche costruzioni romane, tutto è perfettamente amalgamato. L’architettura, nel corso del tempo, ha sempre fatto tesoro dei materiali e degli stilemi della tradizione precedente, portando così al quadro di totale armonia che oggi respiriamo nei centri storici, dove architetture di epoche e di secoli diversi tra loro, distanti tra loro, vengono fusi alla perfezione.

Sono le élite dei progettisti che non tengono conto del sentire comune?
Noi siamo favorevoli a una partecipazione popolare.

Nei post parlate di “città assemblate”. Che cosa sono?
I nuovi edifici sono spesso parallelepipedi di facilissima costruzione, vengono spacciati per design, ma sono la versione ingigantita di edifici pre-assemblati e imposti su larga scala.

Oltre ad avere questa forte influenza in rete – in effetti i commenti sono centinaia – il movimento ha ricadute anche nel mondo reale?
In Scandinavia, i costruttori avevano proposto di inserire in mezzo ai fiordi una serie di case squadrate, bianche, minimaliste, uno stile globalizzato e di moda. Si è attivata la comunità di Architectural Uprising, ha coinvolto la popolazione e gli amministratori locali, c’è stato un momento di riflessione e i costruttori hanno riformulato il progetto in qualcosa di molto più adatto al contesto. Anche il gruppo di Berlino lavora con costruttori e con enti locali, e anche lì sono riusciti a influenzare alcune scelte.

Ma se i cubi bianchi nel fiordo finiscono per aggregare la popolazione, che problema c’è? A quale livello si spinge la vostra critica, oltre al giudizio su scelte estetiche?
Non si tratta solo di gusto. A livello empirico, gli studi sul successo reale di queste nuove costruzioni sono pochi e spesso non sembrano suggerire che istanze di tipo sociale, culturale, antropologico, siano davvero così correlate a un certo modo di fare architettura. Se vedo qualcosa di bello, qualcosa che crea delle relazioni significative fra me, lo spazio e le tradizioni costruttive, questo aiuta ad evitare la creazione di non-luoghi. Soprattutto, crea ambienti multiculturali, è un collante che aiuta a sentirsi parte di una comunità. Se l’ambiente è più accogliente, le persone sono più disponibili.

Sembra evidente.
Sono stati fatti anche esperimenti. È stato chiesto ad alcune persone di fornire un’indicazione, di aiutare altre persone a trovare una strada. Quando queste persone si trovavano di fronte a una facciata in cemento, modernista, lineare, priva di decorazioni, in una strada priva di verde, la volontà di aiutare le altre persone era molto bassa. Risultati diversi si sono visti quando le indicazioni venivano date davanti a una facciata colorata, magari con una aiuola intorno.

Che ne pensano gli architetti che frequentano Rivolta Architettonica?
Ci scrivono tantissimi architetti in privato, ci invogliano a continuare la battaglia e ci dicono: non sappiamo più che cosa fare, nelle facoltà di Architettura c’è un pensiero unico, autoreferenziale che boccia completamente un’impostazione che viene definita passatismo. Siamo di fronte a una mortificazione dell’espressività degli architetti, i quali, quando propongono una soluzione che non è quella del cubo bianco, minimalista o di vetro, si sentono rispondere “tu cerchi solo di imitare il passato. C’è un avvelenamento ideologico profondo e non sappiamo dove potrebbe portare. Gli stili esistono, questo è certo.

Ma si possono superare?
Lo stile è patrimonio immateriale dell’umanità, non è qualcosa che nasce per morire. La volontà di ucciderlo, di non adoperarlo più, di discostarsene, è una volontà ideologica, non è razionale.

Certo, la politica e l’urbanistica, tra greenwashing e Covid, negli ultimi anni ha usato slogan a volte durati il tempo di una campagna elettorale locale. Che cosa pensate quando sentite “città dei 15 minuti” o “rigenerazione urbana”?
La riflessione urbanistica è un ulteriore tassello. La città dei 15 minuti è un concetto importante, è un ritorno a quello che è stato l’urbanismo in passato. E in un certo senso è una vittoria, ci si è resi conto che una certa visione ultra-funzionalista che guardava agli esseri umani come portatori di funzioni, piuttosto che come esseri emotivi che si relazionano, è tutta da riconsiderare.

In Italia molti architetti, definiamoli puristi, sono insorti perché con il bonus 110 per cento sono stati ritinteggiati edifici nati per avere il calcestruzzo a vista.
Capiamo che l’architetto purista si arrabbi perché hanno tinteggiato un edificio brutalista, però che cosa sceglie tra la sua esigenza di purezza stilistica e l’esigenza di chi ci vive quel luogo? A Tirana, quando Edi Rama era sindaco, aveva avviato alcuni progetti per colorare i palazzi in cemento armato. Questa scelta ha rivitalizzato tanti luoghi deprimenti. Bisognerebbe capire quanto gli elementi di ornamento non funzionali, fra cui il colore, possano davvero migliorare la vita delle persone che vivono il luogo.

Possiamo fare una classifica degli errori più comuni che ha rilevato la vostra community?
Più che di errori, si tratta di un certo approccio all’architettura. Dopo il periodo fascista, si è dato spazio a un funzionalismo esasperato che ha fatto tabula rasa di ogni tradizione precedente per reinventare cose nuove che si sono rivelate brutte e del tutto inservibili. Allora ci chiediamo: perché dobbiamo fare a meno della bellezza? Perché le persone per trovare la bellezza devono andare nei centri storici, e chi non vive il centro storico è tagliato fuori dalla bellezza?

Ma davvero le pietre e gli archi del centro storico sono così sostenibili?
Dobbiamo credere che tradizione e funzionalità, bellezza e risparmio energetico, siano in contrasto tra loro? I centri storici nascono da stratificazioni di lunghi periodi e stili, sono davvero contestualizzati anche per rispondere alle esigenze climatiche del luogo.

C’è chi i centri storici non li ha. Il delirio dell’isola di Manhattan è promosso o bocciato?
Qui non si tratta di dare approvazioni, si tratta di provare a sollevare delle questioni su temi sentiti dalla popolazione ma non da coloro che prendono le decisioni. Per parlare di Manhattan, ci sono i grattacieli, ma si sta sperimentando tanto anche con esempi di Neo Art-Deco per provare ad andare oltre la forma del parallelepipedo verticale. E poi dobbiamo aggiungere una cosa: gli americani, quando possono scegliere, scelgono tutt’altro tipo di architettura. La provincia americana è fatta di villette neocoloniali, è qui che la media ed alta borghesia americana vuole davvero abitare. Il problema vero è che per affermarti come città moderna non devi per forza avere il grattacielo.

Ma ci sono esempi riusciti, edifici belli, luoghi con una vita sociale attiva, case abitabili, piazze dove le persone passano volentieri il pomeriggio?
Consigliamo di seguire la fondazione inglese Create Streets, lì vengono raccontati piccoli casi di progetti riusciti, spesso riferiti a cittadine o paesi, sono casi in cui sono stati raggiunti ottimi risultati per continuità storica e vivibilità. E nei quali le persone hanno partecipato al processo decisionale. In Italia abbiamo esempi importanti a Palermo, per esempio la ricostruzione di Palazzo Lampedusa. Però l’Italia, da questo punto di vista, non è sicuramente uno dei Paesi esemplari, anche se siamo ricchi di centri storici da ripopolare.