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Linklater ha paura che il cinema non interessi più alle nuove generazioni
Che il cinema, sia nel senso di arte che in quello di industria, stia passando un momento difficilissimo lo sappiamo. I segni li stiamo vedendo anche alla Mostra di Venezia: red carpet dimezzati e conferenze stampa disertate a causa dello sciopero di Hollywood, giurati (Damien Chazelle, Martin McDonagh, Laura Poitras) con addosso la divisa da sindacalisti e attori (Adam Driver) che approfittano dell’occasione per ricordare, in questa storia dello sciopero, chi ha ragione, chi ha torto, le richieste legittime, le pretese assurde. Il successo di Barbie e di Oppenheimer si sperava avrebbe riportato il sereno dopo anni di crisi pandemica e post pandemica, ma evidentemente così non è stato: i problemi restano e non è detto siano risolvibili. Richard Linklater, per esempio, si è mostrato assai pessimista sul futuro del cinema.
A Venezia per presentare il suo Hit Man (il film è fuori concorso, la prima di martedì 5 settembre è andata benissimo, chi lo ha visto lo ha definito la cosa migliore sul Lido quest’anno assieme a Povere creature di Lanthimos), il regista ha concesso una lunga e bella intervista all’Hollywood Reporter che si può riassumere così: forse il cinema sta finendo, magari è già finito, e non possiamo farci niente. Anche perché la colpa, spiega Linklater, non è certo la “loro” ma la nostra: cosa ci aspettavamo succedesse nel momento in cui abbiamo messo il cinema nelle mani di Big Tech? Cosa pensavamo avrebbero fatto della Settima Arte persone che non provano alcun imbarazzo a definire i film “contenuti”? Non è davvero colpa di nessuno e quindi, ovviamente, è proprio colpa di tutti: con una certa rassegnazione, Linklater dice che gli sembra molto difficile, quasi impossibile, che il cinema ritorni ad avere la rilevanza che ha avuto per tutta la seconda metà del Novecento. I nostri cervelli ormai sono cambiati, gli stimoli tendono all’infinito e l’attention span non fa che diminuire: lo spazio per il cinema, per la letteratura, per la cultura che pretende per sé tempo e attenzione forse ormai non esiste più. Pessimista ma non disperato, Linklater dice anche che un barlume di speranza sono i tanti ragazzi e le tante ragazze che incontra, che gli parlano di cinema, che gli raccontano i film che hanno scoperto grazie alla Criterion Collection. Ma sono pochi, troppo pochi per pensare che il cinema sopravviverà come parte della cultura popolare.
Che Linklater sia pessimista ma non disperato lo si capisce anche dal fatto che i film continua a farli (d’altronde, nell’intervista dice pure che l’unico modo per sopravvivere a quest’epoca disgraziata è insistere, perseverare, sperare che prima o poi le cose migliorino). Hit Man è il suo ventitreesimo lungometraggio, ritorno al cinema in carne e ossa dopo la deviazione animata di Apollo 10 e mezzo. Come detto, del film si sta parlando benissimo, anche e soprattutto per le interpretazioni di Glen Powell (uno dei volti nuovi di Hollywood, visto l’anno scorso in Top Gun: Maverick, di Hit Man è anche il co-sceneggiatore) e Adria Arjona. Il film è basato su un pezzo scritto dal giornalista texano Skip Hollandsworth vent’anni fa su Texas Monthly, una rivista specializzata in true crime. L’Hit Man del titolo è Gary Johnson, un uomo che arrotonda il suo stipendio da professore di psicologia facendo il sicario per la polizia di New Orleans. Durante uno dei suoi “lavori”, Johnson si innamora di una donna vittima di violenza domestica e pur di salvarla mette in discussione il suo lavoro, la sua vita e la sua identità. Come ha scritto Patrick Brzeski, autore dell’intervista a Linklater su Hollywood Reporter, il film ha impressionato il pubblico di Venezia per la sua capacità di raccontare una storia così strana mescolando «black comedy, romanticismo, noir, thriller e approfondimento psicologico». Purtroppo, per vederlo in sala dovremo aspettare ancora un po’: al momento, infatti, Hit Man non ha ancora una data di distribuzione ufficiale in Italia.