Nel suo Paesi Invisibili l'antropologa Anna Rizzo fa un racconto arrabbiato e sincero dei paesi italiani: al di là del marketing, restano posti difficili da capire e da vivere, dai quali molti fuggono e alcuni, con fatica, ritornano.
Le aree “interne”, in Italia, sono zone caratterizzate da una significativa distanza dai principali centri di offerta di servizi. Da queste aree sono lontane le scuole, insufficienti i mezzi di trasporto, carenti i servizi sociosanitari. Il concetto urbano-residenziale della città in quindici minuti, il tempo massimo entro il quale i residenti raggiungerebbero a piedi o in bici la maggior parte delle loro necessità quotidiane, qui è una chimera, una sbruffonata.
Un Paese di provincia
L’Italia è essenzialmente questo: un Paese di aree interne disseminate di piccoli comuni. Secondo l’ultima indagine dell’Istituto per la Finanza e l’Economia Locale dell’Anci, nell’aprile del 2024, i comuni con una popolazione pari o inferiore alle 5 mila unità, erano 5.521, il 69,9 per cento dei 7.896 comuni esistenti. In Valle d’Aosta formano il 98 per cento dei comuni della regione, in Puglia il 34,2 per cento. In Veneto 51,1 per cento e in Calabria l’80,2 per cento. Sembrano dati trasversali, eppure la questione meridionale resiste. Al Sud, ci ricorda l’Istat, il calo demografico coinvolge a un ritmo sostenuto quasi esclusivamente i comuni interni mentre al Centro-nord riguarda in egual misura i comuni interni e quelli centrali. Insomma, ce ne andiamo sì, ma non allo stesso modo, non alla stessa velocità.
Mentre il Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, che nelle aree interne i fenomeni demografici come l’invecchiamento e l’abbandono dei territori a causa delle migrazioni sono esacerbati rispetto al resto del Paese, a livello culturale adesso ci astraiamo, chiedendoci di cos’altro si nutra questo movimento sempre immaginato in avanti. Lo facciamo soprattutto nelle province, luogo abbandonato per antonomasia. Dalle province se ne vanno in molti, in una partenza che ci raduna tutti, indistintamente, priva di un qualsiasi conflitto intergenerazionale, per raggiungere l’agognato centro urbano funzionante, innovativo, accentratore. Quello che sappiamo, anche, è che poi a un certo punto qualcuno torna.
Partire, tornare, restare
Per il collettivo Mosaico di Piazza Armerina bisogna sfidare l’idea che i centri nevralgici nel mondo e in Italia siano solo e soltanto le grandi città. Che ci sia una parte di Paese adibita a catalizzare tutte le innovazioni e un’altra destinata a rimanere una perenne periferia. Ne parlo con Enrico Mazzarino, 32 anni, che Mosaico l’ha fondato nel gennaio del 2023 insieme ad altre sette persone e oggi ne è direttore creativo. Il collettivo organizza un festival estivo articolato in più giornate e momenti, una rassegna artistica e culturale fatta di musica e cinema. Al centro c’è un un entroterra, nella provincia di Enna, affascinante ma investito da uno spopolamento che lo ha privato di teste e corpi e prospettive future. Si soffre, come soffrono tutti i comuni in cui chi vorrebbe lavorare si affanna e arranca.
Il collettivo vuole ripensare i luoghi che abitiamo: è consapevole di organizzare un festival geograficamente lontano dai centri turistici più noti in Sicilia e nonostante questo, o forse proprio per questo, mira a sovvertire l’idea che ci si debba ritrovare dove tutto è già avviato e già instradato. Enrico dice di non essere andato via con l’idea che sarebbe tornato. Allo stesso modo trova asfissiante la retorica sul rimanere a ogni costo. Crede invece che ritornare qui, almeno per lui, non sia stato né un retrocedere né una sconfitta nel suo percorso, ma soltanto il completamento di un movimento. Ha vissuto a Londra e sa cosa significa impiegare un’ora e mezza per andare al lavoro e un’altra per tornare. L’ha fatto perché non si può non uscire quando se ne ha la possibilità. Per capire, una volta tornati indietro, cosa si è perso, cosa si è guadagnato. E a tornare si guadagna, dice. Riconosce che una grande spinta al ritorno per molti sia arrivata dalla possibilità di potere lavorare in remoto e di continuare a farlo, nonostante alcune tendenze di segno opposto, anche qui. Ma che nessuno tornerebbe davvero se non si ricreasse, poi, un ambiente dove si sia felici di stare una volta concluse le ore lavorative.
Ritornare non è un’operazione facile. C’è anche chi, dopo aver tentato di tornare, va via di nuovo. A fine 2024 mi trovavo a una festa di laurea di una ragazza, quando sua sorella maggiore mi disse di essere tornata per lavorare un anno, dopo aver vissuto per anni in Toscana. Le piaceva l’idea che suo marito vivesse per un anno nel luogo dove era nata e cresciuta. Poi non ce l’ha fatta. «Quando ti abitui ai servizi della Toscana è poi difficile far senza», aveva detto mestamente. In provincia di Agrigento, aveva continuato, non avrebbe neanche a chi lasciare la figlia. Parlava con amarezza.
Perché andare, perché tornare
Su queste questioni si sono interrogati i ragazzi e le ragazze che da due anni organizzano nella stessa provincia, a Campobello di Licata, il Festival per il diritto a restare. Quando vi partecipai, nell’estate del 2024, rimasi colpita dalla determinazione delle loro convinzioni. Nessuna persona dovrebbe essere costretta ad andare via dal luogo in cui è nata o in cui vorrebbe vivere. Ma come? In che condizioni?
Hanno risposto con il progetto di ricerca Ma.Dre (Mapping Dreams to Safeguard Students’ Choices), promosso dal loro Centro Studi dedicato a Giuseppe Gatì, giovane allevatore, produttore di formaggi, attivista contro la mafia morto per un incidente sul lavoro a 22 anni, nel 2009. Analizzando gli interessi e le ambizioni lavorative e di studio delle studentesse e degli studenti delle scuole superiori, il report di sintesi “Terra di Futuro”, ci chiarisce perché, ancora oggi, pur nel disastro dei servizi, nell’assenza di una politica credibile, si decide di tornare o di rimanere nei propri luoghi.
Pur nella limitatezza del campione, sei scuole secondarie nella provincia di Agrigento, i dati forniscono una panoramica interessante. Delle 1363 persone intervistate, solo il 7 per cento vorrebbe rimanere nella sua città dopo la maturità, il 26 per cento vorrebbe trasferirsi in un’altra città in Sicilia; il 24 per cento in un’altra regione in Italia; il 32 per cento non lo sa. Cosa sperano di trovare andando via? Un lavoro più gratificante e ben retribuito. La presenza di migliori servizi e infrastrutture, con un’attenzione particolare ai trasporti, alle biblioteche, alle aule studio e alla pulizia degli spazi pubblici. Poi ancora una mentalità più aperta, con riferimenti specifici al desiderio di supporto e all’assenza di giudizio. Cosa li spingerebbe allora a tornare? Se il 60 per cento risponde che lo farebbe, con una netta prevalenza tra coloro che si identificano nel genere maschile, le motivazioni addotte ibridano differenze di genere e sfidano letture esclusivamente economiche. E le ragazze, pur consapevoli della minore disponibilità di opportunità, condividono con i ragazzi la speranza che si potrebbe restare se vi fosse un’istruzione di qualità.
Il festival quest’estate ha riempito la piazza di un paese che alle tre di un giorno d’agosto è esattamente come lo immaginiamo. Assolato. Soltanto pochi anziani ai tavoli a sfidare, spericolati, qualsiasi buon senso. Poche ore dopo, sostituite le birre ai caffè, ai tavoli erano seduti più di cinquanta partecipanti provenienti da tutta la Sicilia e da fuori. Il documento conclusivo del festival non aveva una soluzione a problemi annosi. Ma ribadiva come l’essere umano abbia un rapporto profondo con i propri luoghi, anche quando essi sono, almeno secondo una logica economica, stagnanti.

Nonostante i femminicidi, anche in Italia i contenuti legati alla manosfera sono sempre più numerosi e consumati. Tanto che è inevitabile chiedersi: com'è possibile che a un'ideologia così violenta venga ancora permesso di diffondersi?