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La colonna sonora di Profondo Rosso è un loop infernale che ci sconvolge anche dopo 50 anni
È impossibile separare il successo del film di Dario Argento da quello della sua leggendaria colonna sonora. E della band di ragazzini che, senza quasi rendersene conto, fece un disco che avrebbe stravolto la musica italiana.

Quando si celebra un anniversario, viene naturale spendere iperboli. Quindi, non lesiniamo: Profondo Rosso, inteso come il pacchetto completo (film di Dario Argento – musica dei Goblin) descrive l’Italia del 1975 come poche altre cose di analoga longevità e fortuna.
Per capirlo, diamo un’occhiata al 1975. Ma non al mese di marzo, quando la pellicola arrivò nei cinema. Gli indizi (a differenza di quanto accade nel film) si trovano molto più avanti, in autunno. Sfogliando i giornali dell’epoca scopriamo che Profondo Rosso veniva ancora proiettato a più di sei mesi dall’uscita, nel circuito delle “seconde visioni”. Per chi non era ancora nato o lo era da poco: erano i cinema che proponevano film usciti già da un bel po’, a un prezzo inferiore. Di solito in periferia, o nei paesi. In una nazione con soli due canali televisivi (riuscite a concepirlo?), una prassi diffusa e ben accetta.
Milano, 1975
Se non che – scusandoci per l’esempio Milanocentrico, dovuto alla facile reperibilità di notizie – se nel mese di giugno non era così assurdo che il film fosse in “seconda visione” in una grossa sala del centro (il Paris, pressoché in corso Garibaldi), il fatto che ancora a novembre fosse in programmazione in un’altra grossa sala del centro (l’Argentina, pressoché in corso Buenos Aires) ci rivela che tra passaparola e voglia di rivederlo, la marea di Rosso non si arrestava, l’impatto era più Profondo di quanto avessero previsto i critici (…a onor del vero, non ostili all’opera: «Il film è malfermo e la mente si ribella al cervellotico congegno, ma il cuore batte più svelto», ammise l’illustre Giovanni Grazzini). Se gli spettatori dei primi due mesi erano il pubblico dell’horror o dei thriller, nei mesi successivi erano arrivati anche quelli che chiunque realizzi un’opera d’arte si augura: quelli che sulla carta non avrebbero dovuto essere attratti.
Ecco. Qui, se permettete, allarghiamo il campo per un minuto. Capirete facilmente perché. Il 1974, anno della lavorazione di Profondo Rosso, era stato un anno di bombe (piazza della Loggia a Brescia, il treno Italicus). Nel 1975, a partire dal mese di aprile, gli scontri tra giovani, anzi giovanissimi di destra e sinistra (Claudio Varalli e Sergio Ramelli sono letteralmente teenager) e quelli tra militanti e forze dell’ordine creano una diversa distribuzione del sangue, non più concentrato a causa di stragi freddamente organizzate, ma versato di continuo e senza preavviso un po’ ovunque. Nelle città la gente ha sempre più familiarità con l’odore dei lacrimogeni, gli incendi causati dalle molotov, i colpi di pistola. Poi, a questi vanno aggiunti fatti di sangue che mescolano componenti di caos sociale e puro furore, dei quali tutti parleranno per anni. A giugno, poche settimane dopo aver liberato il fondatore delle Brigate Rosse nonché marito Renato Curcio con un assalto al carcere di Casale Monferrato, la sociologa Mara Cagol muore in un conflitto a fuoco con i carabinieri dopo averne ucciso uno. A settembre tre giovani della Roma bene incontrano tre ragazze, le rapiscono, le stuprano, le torturano e ne uccidono due: il cosiddetto massacro del Circeo. A novembre Pierpaolo Pasolini viene ucciso in modo incredibilmente brutale da un 17enne “ragazzo di vita” a Ostia.
E insomma, se qualcuno di voi era giovane – se non già adulto – nel 1975, può dare la sua conferma o smentita, ma la sensazione che abbiamo noi oggi è che l’Italia intera si sentisse immersa in quel rosso profondo. Così, come si è detto, anche nel novembre 1975 la gente continuava ad andare a vedere quel film uscito a marzo. Ed è a questo punto che possiamo rivelare al nostro pubblico – colpo di scena! – l’altro indizio che tenevamo nascosto. Il 45 giri di Profondo Rosso dei Goblin entrò in top 10 (allora si chiamava Hit Parade) al n.8, il giorno 25 ottobre del 1975. Quasi otto mesi dopo l’uscita del film. Gli ci volle un altro mese per scavalcare Sabato Pomeriggio di Claudio Baglioni e Bella Dentro di Paolo Frescura, issandosi al n.1. Era il 29 novembre 1975.
Goblin Sound System
Era stata una marcia lenta e inesorabile, in una nazione che all’epoca dell’uscita del film contava meno di 10 piccole “radio libere” dal bacino d’utenza limitatissimo, anche se è lecito presumere che tutte propendessero più per il sound dei Goblin che non per il gentile (senza offesa) per Paolo Frescura. Altro piccolo dettaglio: il film era vietato ai minori di 18 anni. In teoria, questo restringeva ulteriormente il pubblico cui poteva arrivare la canzone. Ma la canzone portante della colonna sonora non aveva alcun bisogno di ascolti multipli per rimanere impressa. Bastava un solo contatto. Se volete, fate riferimento alla vostra esperienza personale: non è stato così anche per voi, dalla prima, o al massimo la seconda volta che l’avete sentita – 50 o 30 o 10 anni fa?
Come intuito da Dario Argento, che suggerì ai giovanissimi musicisti di prendere spunto da Tubular Bells di Mike Oldfield, uno degli ingredienti cruciali per il successo de L’Esorcista (1973), gli ascoltatori dell’epoca rimanevano implacabilmente agganciati dalla ripetizione ossessiva e ansiogena delle note di clavicembalo iniziali – su un ritmo dispari, 7/4 come Money dei Pink Floyd (1973). Tutti elementi sbalorditivi per la maggioranza del pubblico italiano (tranne, ovviamente, le grandi nicchie di jazz e prog – quanto alla ripetitività dei minimalisti, per ora la lasceremo fuori. Ma se ci avete pensato, guardiamoci con un cenno d’intesa). Su questi elementi, il 22enne Claudio Simonetti aggiunse il carico gotico da undici: l’organo a 15 mila canne della Basilica del Sacro Cuore Immacolato di Maria (in piazza Euclide, a Roma) sul quale mandò un saluto a Johann Sebastian Bach, suo idolo, e idolo di un suo idolo, Keith Emerson.
Ora torna utile ribadire, più o meno, quanto detto sopra. Se gli ascoltatori dei primi mesi erano quelli del prog-rock (o volendo, quelli del rock in fissa con Satana, tra Led Zeppelin e Black Sabbath), col tempo gradualmente erano arrivati anche quelli che non avevano l’abitudine di ascoltare cose simili. «Nel 1975 la musica che imperversava in Italia era fortemente commerciale, come i Cugini di Campagna, Baglioni. C’erano gli Alunni del Sole con “A Canzuncella”, “Bella Senz’Anima” di Riccardo Cocciante. Avere successo col genere di musica che facevamo noi era veramente un terno al lotto. Se calcoli che abbiamo venduto 1.000.000 di copie nei primi dieci mesi comprendi la portata dell’evento» (Claudio Simonetti, da un’intervista concessa a Federico De Feo di Outpump nel 2024).
Profondo Rosso e Gioca Jouer, gemelli diversi
Oggi il tastierista del gruppo, figlio di uno dei musicisti e personaggi televisivi più popolari nell’Italia degli anni 70 (Enrico Simonetti, scomparso ancor giovane nel 1978) ha 72 anni e pare pervaso da una divertita leggerezza che più che a Profondo Rosso viene da associare al suo altro grande contributo alla storia del pop italiano: “Gioca Jouer”, con Claudio Cecchetto. In definitiva, un altro successo basato su un motivo ripetuto in modo ossessivo e impietoso: quello che ai tempi di Bach veniva chiamato “ostinato”.
Nel suo curriculum ci sono altri successi italo-disco (come quelli per la cantante Vivien Vee), ma il grosso della sua popolarità si deve alle colonne sonore horror, con i Goblin o senza. Con Dario Argento (Suspiria, che nel mondo è anche più noto come film e come musica), o senza (Zombi di George Romero). È interessante constatare che in quasi tutte le interviste che concede (per esempio in televisione dove viene invitato spesso, anche se non di rado in programmi trashoni del pomeriggio) non esprima una grande nostalgia per gli anni ’70 dei suoi vent’anni e dei suoi primi milioni di copie: troppo cupi per lui, a differenza dei più leggeri anni ’80. Chissà cosa ne pensa della decisione di Warner di far uscire una riedizione del disco per festeggiarne il 50esimo anniversario (disponibile dal 4 aprile, prevendite già aperte).

Il suo incontro con Argento fu abbastanza fortuito: i Goblin non avevano ancora fatto dischi, non si chiamavano nemmeno così, erano un complessino underground nell’orbita della piccola etichetta Cinevox, che si arrabattava nel mondo delle colonne sonore. I quattro giovani romani non furono ingaggiati per comporre, ma per suonare le musiche ideate per il film dal jazzista Giorgio Gaslini, col quale Argento aveva già lavorato per Le cinque giornate. Ma presto il 34enne regista dovette constatare che Gaslini era molto lontano da quello che aveva in mente per il suo film, che ancora più dei precedenti horror (nei quali aveva lavorato con Ennio Morricone) sembrava richiedere l’impatto del rock. All’epoca la cosa non si usava, perlomeno negli horror, dove il totem era ancora la musica di Psycho di Bernard Herrmann, con la sua orchestra stridente. Argento invece aveva in mente Emerson Lake & Palmer, Pink Floyd, Genesis, Deep Purple (che evidentemente lo colpivano tantissimo anche per il nome). Con metà dei brani pronti, Argento e Gaslini discussero una volta di troppo, e il secondo se ne andò. I ragazzi furono invitati a completare la colonna sonora in una decina di giorni.
Simonetti riconosce a Gaslini la composizione della nenia infantile ansiogena (espediente già collaudato egregiamente in Rosemary’s Baby di Polanski e ripreso da Morricone ne L’uccello dalle Piume di Cristallo e Il Gatto a Nove Code di Argento), e ha sempre ammesso la citazione di Mike Oldfield in Mad Puppet. Per quanto riguarda invece il tema di Profondo Rosso, in un’intervista alla fanzine Terra Di Goblin, il bassista Fabio Pignatelli fa risalire l’arpeggio-base del brano a una sua variazione su un fraseggio di chitarra dei Jethro Tull in My God (1971). Creato il riff, venne inserito l’elemento minimalista della ripetizione, creando un loop alla buona: registrando le note iniziali su un registratore a due piste, creando poi un anello di nastro che girava continuamente mentre la band suonava gli altri strumenti. Tutto molto analogico, anche se la sensazione (suggerita dal suono del moog più avanti) è che come in Baba O’Riley degli Who (1971), a dettare la linea sia un sintetizzatore al quale gli altri strumenti cercano di rispondere, quasi lottando – e l’ultimo ad arrendersi è un vecchio organo da chiesa.
Non sapremmo dire se la gente andasse a vedere il film Profondo Rosso per cercare una specie di spiegazione consolatoria all’ondata di sangue di quel periodo, attribuendola – come sembra fare il film – a un crollo nervoso decisamente irrecuperabile: non una strategia della tensione, ma una tensione senza strategia, sedimentata negli anni. Dopo di che, nel 1976, il film più visto fu Amici Miei, con la scanzonata goliardia dei pre-boomer. Sarebbero presto arrivati La Febbre del Sabato Sera, King Kong, Guerre Stellari. Meno inquietanti. Forse.
Per quanto riguarda la parte musicale, quello che accadde dopo è che come nello sviluppo del brano dei Goblin, la ribellione alla fine venne, se non proprio soffocata nel sangue, quanto meno sedata. Nella classifica dei singoli, dove era stata preceduta da “Piange il telefono” (Domenico Modugno), “Buonasera Dottore” (Claudia Mori) e “Sabato Pomeriggio” (Claudio Baglioni), Profondo Rosso, dopo un altro 45 giri fortemente inusuale (“Lilly” di Antonello Venditti, canzone su un’overdose di eroina) fu seguito al n.1 da “La tartaruga” (di Bruno Lauzi, firmata da Pippo Baudo) e “Sandokan” degli Oliver Onions. Due sigle televisive. La gente era rientrata in casa. In attesa che là fuori tutto finisse.