Il podcast nasce dall’incontro fra lo sceneggiato radiofonico, il giornalismo e la rete. Per capire meglio questa frontiera ibrida, frutto dell’incrocio fra il medium più tradizionale e quello più innovativo, e spiegare il motivo che ci ha spinto a compilare una lista tutta inglese di programmi consigliati – che trovate in fondo all’articolo – ci siamo rivolti a due esperti del settore: Jonathan Zenti, uno dei pochi produttori italiani indipendenti, autore di un podcast (in inglese) sul corpo umano in uscita questa estate, e Andrea Borgnino, attento esploratore del panorama radiofonico internazionale e conduttore di Radio3. Li abbiamo sentiti per capire qual è la prospettiva di questo format, che ha ormai raggiunto la maturità oltreoceano dando nuova linfa alla radio (il mercato americano fa segnare 67 milioni di ascoltatori), ma che in Italia fatica ad affermarsi.
ⓢ Da dove viene il fervore che c’è intorno ai podcast in questo momento?
AB: È un fenomeno prevalentemente statunitense, che si è sviluppato grazie alla diffusione degli smartphone e a ingenti investimenti fatti dalle radio pubbliche sullo storytelling negli ultimi vent’anni. Al di là del medium innovativo, però, le formule dei contenuti di successo restano quelle già note: buona narrativa e giornalismo di approfondimento o d’investigazione. Non a caso è un fenomeno che ha preso piede negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, Paesi dove c’è una cultura dell’ascolto molto avanzata, non solo per la radio. Basta vedere il loro mercato degli audiolibri.
JZ: Il successo planetario di Serial (podcast uscito nel 2015 e scaricato da più di 100 milioni di utenti in tutto il mondo) ha dato notorietà al fenomeno, lubrificando il sistema di produzione ma, in realtà, anche il mercato americano tende a essere idealizzato: sforna molti prodotti di qualità ma comincia a essere piuttosto saturo rispetto al bacino di utenti. E non è ancora successo che un format ideato negli Stati Uniti sia stato esportato, ad esempio, in Europa come succede spesso per la televisione.
ⓢ Che impatto ha avuto l’avvento del podcast sulla radio?
AB: Oltreoceano ha portato a una personalizzazione dell’ascolto sempre più alta, dando al pubblico maggiore controllo sui contenuti, con un effetto simile a quello portato dal modello Netflix sulla televisione. E ha contribuito ad ampliare l’offerta, valorizzando i contenuti da un punto di vista produttivo. Purtroppo da noi questa ricaduta positiva non c’è stata perché è un mercato troppo piccolo e mancano i grandi autori radiofonici. Ci sono bravi conduttori ma pochissimi produttori.
JZ: In Italia non credo abbia spostato gli ascolti, né in un senso né nell’altro: da noi i podcast sono programmi pensati per essere trasmessi in radio che vengono messi a disposizione anche sul web. Questo ha fatto bene ai programmi di narrativa, ma allo stesso tempo ha tolto pubblico ai palinsesti generalisti, soprattutto ai programmi legati all’attualità.
ⓢ Perché il podcast inteso come programma pensato espressamente per il web non funziona in Italia?
AB: Il limite della lingua non permette di avere i numeri per creare un mercato professionale. Manca la cultura dell’ascolto, la radio è intesa come mezzo d’intrattenimento. Il podcast è visto un po’ come il medium elitario dell’hipster che va in giro con la bici a scatto fisso e si fa crescere la barba a furia di ascoltare programmi con le cuffie
JZ: Per me il limite della lingua è relativo. Ce lo insegna la Svezia che, con meno di 10 milioni di abitanti, ha prodotto un podcast scaricato un milione di volte: Spår, racconto di un caso di cronaca nera che è stato addirittura riaperto in seguito al programma. In Italia manca l’interesse nel pubblico per i prodotti audio, soprattutto fra i giovani: ho appena tenuto un corso alla scuola Holden a studenti fra i 18 e i 25 anni. Buona parte non aveva mai ascoltato la radio, neanche per la musica, che sentivano via YouTube. Non trovavano motivo di ascoltarla e non sono riuscito a convincerli. E poi in Italia mancano i veri editori. La radio autoriale è come Alitalia: non ha un piano industriale credibile.
ⓢ Le nuove frontiere del podcast?
AB: Negli Stati Uniti si è aperto il capitolo porno: la legge non permette di parlare di sesso in radio ma i podcast non devono sottostare a questa regola e si stanno sviluppando prodotti per tutti i gusti, tipo le categorie di YouPorn. L’ho scoperto recentemente, grazie a un hacker di Boston che si è infiltrato in una radio evangelista mandando in onda un podcast “furry” su gente che fa sesso travestita da animali pelosi. A parte questo, recentemente si è cominciato a diffondere il fenomeno del binge-listening, con tutti gli episodi di una serie pubblicati allo stesso momento, anziché diluiti nel tempo. E c’è chi sta sperimentando l’interazione con il linguaggio dell’illustrazione e della Virtual Reality, come il podcast Quake della BBC.
JZ: Io sono scettico rispetto alla contaminazione con altri medium. Credo che gli elementi fondamentali dei podcast restino quelli tipici della radio: una narrazione intima, vicina all’ascoltatore e tanto lavoro sull’audio, lasciando sgombra la vista per liberare l’immaginazione.
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In una stagione perfetta per viaggiare, andare in bici, oziare al sole con le cuffie nelle orecchie, l’offerta di podcast non è mai stata così abbondante. Abbiamo selezionato alcune fra le novità più succulente del momento: si va dal giornalismo al sesso, passando per l’economia e lo sport.