Non di uno qualsiasi, però: parliamo di "Lazarus", la nuova serie di Shinichiro Watanabe, l'autore di "Cowboy Bebop".

Ottant’anni fa a piazzale Loreto
Le ore che precedettero quello storico 29 aprile 1945: il tragitto, la decisione, il simbolismo. Un estratto dal libro Una domenica d’aprile di Giovanni De Luna.
Quello che leggerete è un estratto dal libro di Giovanni De Luna, Una domenica d’aprile. Piazzale Loreto, 1945: una fine, un inizio, pubblicato da Utet, che ringraziamo. A ottant’anni esatti di distanza dall’esposizione del cadavere di Mussolini appeso a testa in giù a piazzale Loreto, a Milano, nell’aprile del 1945, Giovanni De Luna scrive una ricostruzione ravvicinata che è insieme un’interpretazione originale di quello che è stato un simbolo della fine di un regime e di una guerra. Una domenica d’aprile che viene raccontata ora per ora attraverso una miriade di testimonianze “dal basso”: diari, fotografie, lettere, ricordi di gente comune.

Folla radunata a piazzale Loreto. Foto di Christian Schiefer © 2025, De Agostini Libri S.r.l.
Dal lago di Como a Milano
Si erano fatte le 20 e il camion arrivò in piazzale Loreto solo nel cuore della notte del 29 aprile 1945, domenica. La scorta era guidata da Walter Audisio e Aldo Lampredi. A intralciarne il percorso, ritardandone quindi la marcia, contribuirono almeno tre soste dovute, le prime due a posti di blocco degli americani (a Menaggio e prima di Como), la terza a uno sbarramento operato dai partigiani della divisione Ticino, formazione di ispirazione democristiana, in prossimità dello stabilimento Pirelli in via Fabio Filzi, a Milano; qui la colonna si fermò per quasi tre ore, riuscendo a passare indenne (i partigiani che accompagnavano i cadaveri erano stati scambiati per fascisti!) solo dopo un concitato conciliabolo con il comando del Corpo volontari della libertà e grazie all’intervento di alcuni operai che occupavano lo stabilimento che, anche per la paziente opera di mediazione di Lampredi, constatarono che il camion trasportava proprio i cadaveri di Mussolini e degli altri gerarchi fucilati a Dongo. Erano tutti imprevisti che sottolineavano lo stato di complessiva precarietà in cui ancora agivano i partigiani, alle prese con ordini contraddittori e invischiati nel caos trafelato delle prime battute di un’insurrezione difficilissima da organizzare e ancora più complicata da gestire. A mezzogiorno del 25 aprile solo le fabbriche risultavano occupate dagli operai, mentre si dava inizio allo sciopero generale dei servizi pubblici. La sera furono occupate le sedi dei giornali. La prefettura fu presa, dagli insorti della guardia di finanza, all’alba del 26 aprile e dopo di essa la questura, il municipio, l’Eiar, le caserme, i comandi militari. La confusione era enorme: «Continuiamo a uscire e rientrare in casa», scriveva una testimone, «non combiniamo niente, siamo in uno stato di smarrimento totale. Si parla con un mucchio di gente, ci pare che da ieri siano passati almeno quindici giorni. Tralascio la valanga di telefonate, la gente che passa per casa, i tè, le colazioni, e io che faccio il treno merci correndo a piedi per provvedere il mangime nei più disparati luoghi e coi prezzi più disperati».
In quel marasma, secondo Walter Audisio la destinazione di piazzale Loreto era stata scelta già all’inizio del viaggio verso Milano proprio per il suo valore simbolico, quasi a esaltare quella legge del contrappasso sulla quale si regge in larga parte la “simmetria” della guerra civile. Altri sostengono, invece, che sia stata una decisione presa all’ultimo momento, nelle discussioni che si accesero lungo il tragitto: anzi, secondo una testimonianza autorevole, «fu presa da alcuni partigiani, stanchi e provati, nella notte, con l’intenzione di restituire giustizia e con l’idea di un contrappasso nell’esaltazione dei giorni della Liberazione. Chi decise era certamente inconsapevole delle conseguenze che ciò avrebbe causato e della necessità di dover appendere quei corpi poche ore dopo alla pensilina di un distributore di benzina, per preservarli dallo scempio che ne avrebbe fatto la folla». Anche Lampredi parla di una scelta fatta in corso d’opera: «La decisione di metterli in quel posto fu presa durante il viaggio di ritorno e mi pare proprio su mio suggerimento […] (Longo) mi domandò dove avevamo lasciato i corpi dei gerarchi e quando gli dissi in piazzale Loreto dove erano stati fucilati i 15 partigiani, espresse disappunto ritenendo che avessimo profanato il luogo. Gli risposi che secondo noi era un atto che rendeva giustizia a tutti i caduti nella lotta di Liberazione e rappresentava un esempio salutare e un efficace ammonimento».

Assembramento di uomini, di cui alcuni armati, in corso Buenos Aires. Foto di Luigi Ferrario © 2025, De Agostini Libri S.r.l.

Autocarri carichi di partigiani passano di fronte al cinema Venezia in corso Buenos Aires, 39. Foto di Luigi Ferrario © 2025, De Agostini Libri S.r.l.
Una destinazione ovvia
Sta di fatto che, una volta arrivati nel piazzale, i diciotto cadaveri furono scaricati sul lato di viale Brianza e lì restarono in un mucchio scomposto, sorvegliati da tre partigiani dell’Oltrepò pavese ai quali, alle 7 del mattino, avrebbero dovuto dare il cambio gli uomini della Cinquantaduesima brigata garibaldina, sempre proveniente dall’Oltrepò pavese. La giornalista inglese Rita Hume, corrispondente di guerra dell’International News Service, presente alla scena (a quell’ora di notte?), scrisse nel maggio 1945: «Quando giungemmo, per puro caso, nella piazza oggi famosa dei xv Martiri, scorgemmo un numeroso gruppo di patrioti i quali sembravano intenti a scaricare un autocarro e a trarne dei sacchi. Appena quelli ci scorsero, ci fecero segno di fermarci e ci invitarono ad assistere all’operazione alla quale erano intenti. Lavoro indubbiamente macabro: perché quello che a noi era parso, visto da distante, lo scarico di sacchi da un autocarro era, in realtà, la preparazione di una scena terribile, cioè l’esposizione alla folla dei cadaveri di Mussolini, della sua amante e dei gerarchi fascisti, catturati la vigilia e fucilati presso il lago di Como».
Lo spettacolo comincia
La notizia dei corpi “esposti” si diffuse con eccezionale rapidità grazie anche alla radio. Dalle 6 del mattino del 26 aprile 1945, nei locali dai quali trasmetteva Radio Tevere, fiore all’occhiello della propaganda della rsi, in via Antonini, erano infatti arrivati i partigiani della Quarantesima brigata Matteotti, agli ordini di Corrado Bonfantini e Umberto Ricca: il primo comunicato, con il suo incipit carico di emozione e di entusiasmo – «Qui Radio Milano liberata…», era stato un annuncio liberatorio; ora, dopo una prima comunicazione alle 6.40, alle 8 del mattino del 29 aprile, dalla stessa emittente arrivava la notizia in via ufficiale: in piazzale Loreto c’erano i corpi di Mussolini e degli altri gerarchi, e quella che pareva una “voce” si trasformò in una certezza. Ma furono il passaparola o, in una versione più moderna e limitatamente ai ceti più agiati, il telefono, le forme di comunicazione più diffuse, in un’oralità dilagante e incontrollata.
Su questo, i testimoni che hanno messo sulla carta i propri ricordi, i “diaristi di Pieve Santo Stefano”, concordano: Mario Tutino («Mi precipito al telefono e chiedo a Carlo M. se egli sappia nulla. Anche lui ha appreso la notizia or ora da Renzo S. Telefono a Carlo B. che non sa nulla ancora e resta sorpreso e perplesso»); Claudio Cimarosti («Quel giorno in piazzale Loreto io c’ero. Prima ancora che fossero appesi a testa in giù alla pensilina del distributore di benzina, la notizia che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi ed erano in piazzale Loreto si sparse per la città. Anche mio papà lo seppe, prese immediatamente la bicicletta, mi mise in canna e partimmo per piazzale Loreto»); Dino Villani («Esco di casa alle 8. Davanti al portone la portinaia è ferma con un ciclista che viene da piazzale Loreto dove dice di aver visto il corpo di Mussolini e di altri diciassette fascisti. I morti sono collocati là dove vennero fucilati i quindici patrioti. Mi fermo ad ascoltare incredulo perché la fucilazione di Mussolini sembrava avesse avuto luogo a Dongo o in un altro paese della Valtellina. Interrogo il ciclista per sentire se ha proprio visto lui, oppure se l’ha sentito raccontare»); la poetessa e scrittrice Magda Ceccarelli De Grada, che anticipa già alle 4 del mattino, prima quindi del notiziario radiofonico, lo spargersi della “voce” («29 aprile 1945. Stamani alle quattro sento parlottare in strada, nessun veicolo ancora, le voci suonano rade e strane a quest’ora. Mi affaccio dentro i vetri e vedo gruppi di due tre persone che si comunicano qualcosa di misterioso e accennano verso Loreto. Ritorno a letto fino alle sette e mezza; un’amica mi telefona disdicendomi un appuntamento perché va in piazzale Loreto dove sono esposti i corpi dei fucilati Mussolini coi maggiori gerarchi fascisti. Ci vestiamo. Ernesto mi prende sotto braccio e c’incamminiamo a piedi»). E dello stesso parere è anche Georges Roux («la notizia […] sollevò una grande effervescenza. I negozianti, sulle porte delle loro botteghe, s’interpellavano scambievolmente o discutevano con i passanti; tutti, naturalmente, erano antifascisti, lo erano sempre stati, non avevano mai approvato il dittatore che schernivano. Mai»).

Vigili del fuoco a piazzale Loreto mostrano la prima pagina del giornale “Avanti!” con la notizia di Mussolini «giustiziato». Foto di Christian
Schiefer © 2025, De Agostini Libri S.r.l.
Il jazzista Franco Cerri sentì invece prima «sua madre annunciare con voce tremante: «Signur, hanno portato “el Cerùti” a piazzale Loreto», poi la sorella che, incredula, aveva chiesto: «Ma chi te l’ha detto?» e infine il padre: «L’ho sentito anch’io, giù nel cortile: l’hanno portato a piazzale Loreto». Con il diffondersi della notizia cominciò così ad arrivare gente da tutte le parti, dagli altri quartieri, dalle periferie, dai comuni vicini (da Pero, da Sesto San Giovanni, da Monza), dalle cascine della cintura, in tram, a piedi, su un carro trainato da buoi (fu il caso della famiglia Intra che si mosse, «compresi i nonni e i bambini»), in bicicletta. A un certo punto in piazza si contavano migliaia di persone. E tutte le testimonianze indicano proprio nella folla l’assoluta protagonista di quel caos; una massa che premeva, si accalcava, alimentata dai tram che scaricavano continuamente nuovi spettatori, dai cortei improvvisati che arrivavano da tutti i quartieri: «A piazzale Loreto», disse allora uno dei testimoni, «oggi potrebbe arrivarci anche un cieco: vanno tutti da quella parte».
Era una folla indisciplinata e improvvisata, diversa e altra da quella, in divisa e “militarizzata”, che aveva salutato il Duce nelle giornate del dicembre 1944; una folla eccitata, animata da impulsi contraddittori, dalla voglia di vendicarsi, di sfogare la rabbia accumulatasi in cinque anni di guerra, di convivenza con la morte, la paura, la fame, il freddo, dal desiderio spasmodico di trovare nei cadaveri di Mussolini e dei gerarchi la prova tangibile che l’incubo della guerra si era finalmente dissolto: «Quella di piazzale Loreto era la cerimonia della fine della guerra. Era all’ultimo appuntamento con Lui che si andava, millimetro dopo millimetro, sotto il sole che ci friggeva le teste. […] Era, pensando alla spiegazione finale con Lui, che vociavamo rancori, giustificazioni, lamenti, abiure, alibi, esecrazioni, esorcismi»; e, soprattutto, dalla smania di prendersi la soddisfazione di profanare impunemente la “rituale sacralità” che aveva circondato la figura di Mussolini: «Quel giorno […] la statua era stata abbattuta, era lì, a terra, eppure molti stentavano ancora a credere a un simile evento. Così correvano a rendersene conto, ad accertarsi che la vendetta popolare e la sconfitta personale avessero davvero ridotto a dimensioni squallide e vergognose l’intoccabile simulacro di un potere finalmente umiliato».
Con l’esposizione in pubblico del corpo del tiranno, fatto segno a nuovi e ripetuti colpi da chi incrudeliva su quella carcassa, si consumò così un rito alla rovescia che coglieva – pur nel solco della più rigorosa tradizione culturale dell’Italia contadina – il senso della rottura operatasi nel ruolo dell’ultimo Mussolini: il nesso con il potere si era fatto sempre più fisico e corporale. E la distruzione violenta del suo regime si accompagnò a quella, altrettanto violenta, del suo corpo.