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Il paradosso di Pharrell

La collezione di Louis Vuitton, che ha sfilato nella sede dell’Unesco a Parigi, solleva alcuni interrogativi sull'utilizzo che la moda fa di messaggi e idee radicali.

di Asha Salim

È passato poco più di un anno dalla nomina di Pharrell Williams di Louis Vuitton, e dopo un debutto stellare sulla passerella damier sul Pont Neuf, il neo Direttore creativo continua a tessere le reti tra Parigi e la Virginia (suo stato natale), la Francia e l’America, l’America e il mondo. Per la collezione Primavera Estate 2025, che ha inaugurato la moda uomo a Parigi, Williams ha scelto la sede dell’Unesco. Sotto un cielo drammatico e quasi apocalittico, i giardini dell’agenzia culturale delle Nazioni Unite diventano corridoi di intersezioni fisiche e visive, mentre la progressione dei colori, iniziando dal nero, passando per il verde, il marrone e il grigio, rispecchia la diversità di una pletora di modelli dalle nazionalità e tratti somatici differenti. Un inno alla multiculturalità, ispirato dai diversi archetipi che di giorno popolano la simbolica sede di Parigi – ambasciatori, diplomatici ed esploratori – con l’obiettivo di «celebrare e omaggiare la totalità dell’essere umano», come ha spiegato lo stesso Williams. 

Attraverso silhouette che richiamano le molteplicità dell’uomo e del viaggiatore contemporaneo, abbinate a motivi chiaramente ispirati alle influenze diasporiche sulla cultura occidentale, la collezione mette in evidenza le relazioni tra le diverse visioni estetiche dell’umanità. Anche se il risultato è la rappresentazione di un’estetica visivamente egualitaria, e quindi ideale, è imperativo pensare a cosa sarebbe successo se gli stessi abiti, le stesse valigie, gli stessi tessuti, si fossero trovati in un contesto diverso da quello in cui sono stati volutamente presentati. Avrebbero lo stesso significato? Chiaramente no.

Sfilare nella sede dell’Unesco, per quanto forte come metafora, non può non tener conto della connessione oggi debole che unisce l’Occidente al resto del mondo, mentre lo stesso titolo della collezione, per quanto celebrativo e incoraggiante, pone più di un interrogativo se se si considera il pubblico a cui si rivolge: “Le monde est à vous” (“Il mondo è tuo” o letteralmente “Il mondo a te”), un titolo ripreso anche nel video di introduzione alla collezione diretto dal collettivo creativo Air Afrique, piattaforma multimediale che si ispira all’eredità dell’omonima compagnia aerea panafricana, vettore internazionale dell’Africa occidentale e centrale francofona. 

Ambientato in una sala dell’Unesco, il film funge da teaser per la collezione e vede lo scrittore e curatore svizzero Simon Njami rivolgersi a un gruppo di bambini nelle vesti di futuri diplomatici. Usando le parole del politico, scrittore e pensatore francese originario della Martinica Aimé Césaire, un suggestivo Njami dice: «Aimé Césaire definiva l’universalismo come una somma totalitaria di particolarismi e per preservare la diversità, che rappresenta la bellezza del nostro mondo, è fondamentale dimenticarlo. In accordo con questo principio di universalismo, c’è un bisogno vitale di tenere unita la collettività, perché la sola maniera di preservare il futuro è riuscire a pensare a una coesione tra tutti gli esseri umani, un collettività unica e non divisa. Voi siete il futuro, il mondo vi appartiene, sta a voi reinventarlo e immaginarlo».

Il discorso di Césaire si appella all’importanza della contaminazione culturale, alla diversità e alla responsabilità comune verso l’umanità che ci appartiene in maniera intergenerazionale. Visto come un messaggio da tramandare alle future generazioni è di certo ambizioso. Ma quali sono le nuove generazioni a cui si rivolgono Pharrell e Louis Vuitton?

In un clima di perenne instabilità geopolitica, che in qualche modo si riflette sull’industria della moda che oggi attraversa un momento estremamente difficile, sembra quasi distopico proclamare che «il mondo vi appartiene» o appellarsi all’«unità globale» mentre ci si trova di fronte a una platea privilegiata in cui unità e solidarietà non sono esattamente prioritari. Ci spinge a chiederci chi sono i «possessori del mondo» e qual è il loro ruolo quando si parla di unità e solidarietà globale.

Lo stesso Aimé Césaire, nel suo celebre saggio Discorso sul Colonialismo, che analizza a livello universale le dinamiche di potere tra chi il potere lo esercita e chi lo subisce, il colonizzatore versus il colono e viceversa, discute come il desiderio di conquista e possesso dell’Occidente nei confronti dell’Oriente fosse mosso unicamente da interessi legati allo sfruttamento economico, e in nessun modo da pensieri di unione e collettività. Considerando la grande capacità di raggiungere le persone che possiede, la moda può e deve lavorare sulle grandi idee, ma deve anche stare attenta a non banalizzarle e a non incappare nell’errore di rafforzare le stesse ideologie che vorrebbe mettere in discussione. Nel momento in cui si interpellano entità, identità, e temi che non riguardano esclusivamente la nostra persona in maniera indiretta,  decentrare noi stessi in funzione dell’altro e degli altri è fondamentale, soprattutto quando si parla di collettività e solidarietà. È bello pensarci tutti uguali, ed essere coscienti dei gradi di somiglianze che ci uniscono in tutto il mondo, allo stesso modo però è imperativo essere consapevoli e riconoscere anche i gradi di differenze che determinano i nostri ruoli e non ruoli nella società specie, quando questi messaggi vengono veicolati attraverso una piattaforma globale come lo è un marchio di moda.

Pharrell non è certo l’unico o il primo a usare la moda come mezzo divulgatore di messaggi radicali e comunitari: nel marzo del 2022, Demna aveva portato in scena una collezione, l’Autunno Inverno 2022-23 di Balenciaga, che parlava di crisi climatica. Nello show si faceva poi esplicito riferimento alla guerra in Ucraina, che era appena scoppiata. Virgil Abloh, con Off-White prima e Louis Vuitton poi, non solo ha definitivamente sdoganato lo streetwear nella moda, ma ha per sempre ridefinito il concetto di “lusso convenzionale”, includendo nelle sue collezioni temi di chiara natura politica e sociale. Seppur non sia passato molto tempo dalla sfilata-resistenza di Balenciaga e dalla scomparsa di Virgil Abloh, ad oggi, il connubio moda e sociale sembra un qualcosa di ormai lontano e quasi impraticabile. L’apparente risveglio politico e sociale al fronte delle ingiustizie politiche e razziali negli Stati Uniti, le conseguenze della pandemia e ora i molteplici conflitti geopolitici nel mondo sembrerebbero aver portato sì a una consapevolezza maggiore del mondo che esiste al di fuori della moda, ma quest’ultima fatica oggi a farsi portavoce e interprete di questi messaggi, e finché continuerà a prendere pezzi di continenti per parlare a persone di cui in verità conosce poco e niente, qualsiasi tentativo di unire edonismo e sociale risulterà sempre paradossale.