«Ogni stadio nella vita di un indumento minaccia il pianeta e le sue risorse. Ci possono volere più di 20.000 litri di acqua per produrre un solo kg di cotone, che corrisponde a una sola maglietta e a un paio di jeans. All’incirca 8.000 diversi prodotti chimici vengono utilizzati per la trasformazioni dei materiali vergini in abiti da indossare, senza contare i diversi passaggi di tintura e finissaggio. E che cosa succede a tutti quei capi che rimangono invenduti, si rovinano, oppure, semplicemente, passano di moda?». Questo è quanto si legge in apertura del giro di opinioni di Business of Fashion sul rapporto tra moda e nuove tecniche di produzione nell’industria dell’abbigliamento. Non si può dire certo che sia una novità: che quella tessile sia la seconda industria più inquinante dopo quella petrolifera è un fatto risaputo pressoché universalmente. Da diverso tempo, ormai, il dibattito sull’utilizzo delle risorse e l’impatto ambientale di determinati modelli di business legati alla produzione di vestiario – in primis quello del fast fashion – si è concentrato sull’individuazione di alternative concrete, che molto spesso hanno come condizione di partenza la riformulazione più o meno radicale delle nostre abitudini di consumo.
Quella di Chouinard è una storia romantica, puntellata di atti di ribellione civile, concreti come i suoi piumini bestseller che anche chi vive in città ha finito per indossare. Come ha sottolineato a Copenaghen Rick Ridgeway, anche lui ex alpinista e vice presidente di Patagonia con delega agli affari ambientali, la sfida di chi confeziona vestiti oggi è tutta nel «costruire il miglior prodotto al prezzo del minor danno possibile», posizione confermata più volte dal presidente e Ceo Rose Marcario, arrivata da Patagonia nel 2008, dopo essersi lasciata alle spalle un lavoro in finanza che l’ha portata all’esaurimento, come racconta in un bel profilo su Fortune. «C’è molto spazio per l’innovazione in questo settore. Non dobbiamo necessariamente reinventare tutta la catena produttiva, ma quei marchi che non affronteranno la realtà del vero costo del produrre abbigliamento oggi e del fast fashion, finiranno per essere messi da parte». D’altronde, il momento storico lo richiede con urgenza, tanto più ora che i primi provvedimenti dell’amministrazione Trump prendono forma: risale a ieri, ad esempio, il momentaneo “silenziamento” dell’Epa, l’Agenzia per la tutela dell’ambiente, che ha destato molta preoccupazione, considerando quali sono le posizioni del neo presidente a proposito di riscaldamento globale e, più in generale, il suo atteggiamento disinteressato, quando non apertamente ostile, alle tematiche ambientali. A questo si aggiunge la decisione di sbloccare i lavori per gli oleodotti del Dakota Access e del Keystone XL, in aperto contrasto con quanto deciso da Barack Obama meno di un mese fa.
Economia circolare significa molto semplicemente che i capi di Patagonia non sono fatti per essere buttati, ma anzi per resistere quanto più possibile nel tempo: possono essere riparati oppure, nel caso il proprietario se ne fosse stancato, riciclati. L’obiettivo è quello di produrre meno rifiuti possibile: un impegno che il marchio di outdoor persegue sin dalla sua fondazione, tanto nella ricerca dei materiali e nella sperimentazione di nuove tecnologie applicate ai tessuti, quanto nella tutela dei lavoratori. Durante il Black Friday del 2011, sul Nyt è apparso un annuncio pubblicitario che recitava «Don’t buy this jacket»: un invito a riflettere sull’insensata pratica dello shopping selvaggio che segue il giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti.
Patagonia, insomma, è un’azienda etica o, come preferiscono definirsi da quelle parti, responsabile, che vuole instaurare con i propri “consumatori” un rapporto di comune accordo su determinati temi sociali e politici. Un modello di azienda che in molti definiscono quello del futuro. Senza poi dimenticare il fattore “cool”, visto che l’abbigliamento tecnico variamente declinato è ancora di gran moda sulle passerelle, come hanno dimostrato le ultime sfilate maschili (e si veda a questo proposito la collaborazione di Junya Watanabe con North Face, Carhartt, Barbour e Kengol fra gli altri). Qualora avessimo ancora bisogno di sdoganare giubbotti catarifrangenti, cappellini alla pescatora e pantaloni felpati.