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Oliviero Toscani è stato la tempesta perfetta

A 82 anni è morto uno dei più famosi fotografi della storia recente, dopo una vita di arte, pubblicità, battute, polemiche e incazzature.

di Enrico Ratto

Malattia, ricordi e messaggi, tutti dettagli di poco conto di fronte alla vita di Oliviero Toscani, morto ieri a 82 anni. Tutta la dose di shock l’avevamo già consumata la scorsa estate, quando sul Corriere della Sera era uscita – in una splendida intervista di Elvira Serra – la notizia sul suo stato di salute, e qualche giorno dopo lo avevamo visto in televisione durante un incontro molto affettuoso con Corrado Formigli. Ma a sparigliare le carte del nostro ordine mentale – cosa che senz’altro è piaciuta moltissimo a Toscani – non sono state le immagini di un fisico improvvisamente ridotto all’osso, quanto l’improvvisa trasformazione di Oliviero Toscani da pubblico a privato. Stava parlando per restare, non per esserci.

Certo, chi ha avuto l’occasione o la fortuna di conoscerlo, ha sempre capito che l’animale pubblico doveva essere lasciato andare, tanto era indomabile, e che molto era funzionale alla sua straordinaria ambizione di affermare a suon di iperboli una presenza, prima che una serie di sacrosanti contenuti. Ma poi, quando il pubblico non c’era, a microfoni spenti – o accesi per pochi – allora i contenuti avevano la meglio, e di contenuti Oliviero Toscani ne ha avuti più di ogni altro, per lo meno pari a pochi altri. È stato, Oliviero Toscani, un uomo della generazione dylaniana degli uragani e dei giovani per sempre, ben dotati di «strong foundation when the winds of changing shift». Figlio di Fedele Toscani, fotoreporter del Corriere della Sera quando quell’incarico voleva ancora dire qualcosa, per esempio, potevi essere convocato da Mussolini dopo averlo fotografato di spalle a fare pipì in mare, e tenergli testa. Era fratello minore dell’amatissima e mai troppo ricordata Marirosa, fotografa che insieme al marito Aldo Ballo ha contribuito a raccontare il design – e soprattutto i designer italiani – nel mondo.

Oliviero Toscani ha avuto fondamenta solide e adatte per affrontare qualsiasi tempesta, pure quella della malattia, pure quelle che si scatenava addosso da solo, quando noi osservatori ci chiedevamo che senso avesse, perché non si fosse fermato una mezza frase prima. Poco utile elencare qui tutte le fotografie, le intuizioni, le campagne realizzate, i progetti per Benetton come Colors, rivista globale che ha raccontato il mondo contaminato in cui stavamo entrando e che pochissimi, negli anni ’90, comprendevano nella sua complessità. Non ci fossero stati dietro tutti quei maglioncini da vendere, forse, gli sarebbe stato perdonato qualcosa di più. In un Paese prevalentemente provinciale come l’Italia, nelle interviste, quando doveva ristabilire i ruoli e recuperare un po’ di terreno, finiva per citare la sua amicizia con Andy Warhol nella New York degli anni ‘70, ma questo succede anche ad altri grandissimi come Mimmo Jodice (produci arte per una vita, poi per spiegare chi sei devi raccontare di quella volta in cui hai lavorato con Andy Warhol).

Per quel che importa, la gran parte dei fotografi ha sempre detestato Oliviero Toscani. È un pubblicitario, dicevano, non un fotografo, come se la differenza avesse una qualche rilevanza, come dire che Ayrton Senna era un pilota, non uno sportivo. Toscani conosceva la ragione ultima per cui usava la macchina fotografica o inseriva marchi commerciali sulle sue foto, o sulle foto d’altri. C’è un episodio personale che mi diverte sempre molto. Una decina di anni fa, una gallerista di Pietrasanta, in Toscana, voleva organizzare un’intervista pubblica nel giardino della sua galleria, ero coinvolto per moderare l’incontro. La gallerista telefonò a Toscani e, appena iniziò a formulare l’invito, lui la fermò: «È uno di quegli incontri pieni di fotografi che si fanno le seghe?». Lei balbettò qualcosa, mi confessò che le tremarono pure le mani, riattaccò e l’incontro non si fece. Ancora oggi, quando ci penso, non riesco a non ridere di gusto: aveva fatto l’unica domanda sensata, aveva voluto conoscere il contesto, non chi pagasse i conti dell’hotel. Oliviero Toscani è sempre stato rapido, estremamente sintetico, tranne quando, appunto, la questione diventava privata. Nelle tre o quattro occasioni in cui abbiamo avuto occasione di parlare per interviste o commenti ai suoi libri, non si è mai risparmiato, voleva che dall’altra parte le parole arrivassero fino in fondo. Risposte dense, mai affrettate, come chi si concentra su quello che fa e tiene fuori tutto il resto. Anzi, il resto sono leggende.

Oliviero Toscani ha sempre coltivato tenute, altro che giardini, non solo in Maremma. Faceva il fotografo con gli occhi di chi ha studiato la grafica della Bauhaus, è stato il più globale dei fotografi italiani, e c’è stata un’epoca in cui ci voleva coraggio. Da New York potevi tornare in rovina nel giro di un paio d’anni, per la maggior parte dei fotografi è andata così, comunque la raccontino. Solo ai grandi della moda è andata bene allo stesso modo, hanno saputo ottenere il rispetto al di là delle facili amicizie. Il suo l’obiettivo è sempre stato fare arrivare il messaggio attraverso le immagini, costi quel che costi, e oggi è innegabile che ci siano un paio di generazioni di persone che se devono citare il nome di un fotografo italiano, dicono Oliviero Toscani, pur non sapendo nulla di fotografia, e questo è un grande risultato. Come tutti i grandi, verrà storicizzato, ci saranno tante mostre con le sue foto su fondo bianco. Nelle ultime interviste, alla domanda su quale fosse il lavoro a cui era più legato, Oliviero Toscani ha risposto quello su Sant’Anna di Stazzema. Aveva voluto raccontare una strage di sessant’anni prima attraverso i ritratti dei sopravvissuti. In quei ritratti non c’erano celebrità, non c’erano modelle, c’erano bambini di settanta o ottant’anni. Anche loro Forever Young, come Oliviero Toscani.

Foto in copertina di Rosdiana Ciaravolo (via Getty Images)