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Benvenuti nella broligarchy, il mondo in mano agli sfigati
Musk, Bezos, Zuckerberg, Altman, Cook, Pichai: con il ritorno di Trump, i tech bro hanno svoltato a destra e deciso di prendersi il mondo.
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Io ed Elon Musk abbiamo in comune una cosa: entrambi pensiamo spesso all’impero romano. Ci ho pensato quando Joe Biden ha parlato per l’ultima volta alla nazione da Presidente degli Stati Uniti: il passo da repubblica a oligarchia è breve e noi con un piede siamo già in questa fossa, ha detto. È probabile che Biden avesse avuto una soffiata e fosse venuto a sapere dell’assegnazione dei posti all’inaugurazione della seconda presidenza di Donald Trump: vicino agli occhi, vicino al cuore c’erano Musk, poi Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sam Altman, Sundar Pichai, Tim Cook, Shou Zi Chew. Prima che la Silicon Valley si rivelasse la valle dell’ombra della morte, questo supergruppo lo avremmo chiamato Big Tech. Oggi stiamo decidendo ma siamo ancora indecisi: c’è chi preferisce complesso tecno-militare, chi oligarchi americani. A prescindere dall’etichetta che ci appiccicheremo sopra, queste persone messe assieme fanno un bilione di dollari: a tanto ammontano i loro patrimoni personali. Qualche giorno fa, Maurizio Landini si chiedeva che cosa se ne fa un uomo di 464 miliardi di dollari (il patrimonio personale di Musk): ci fa questo, si compra un posto in prima fila perché «la vicinanza al potere fa credere alle persone di averne a loro volta», come spiegava Frank Underwood.
Quando si parla di oligarchi io penso sempre a Marco Licinio Crasso, secondo alcune ricostruzioni storiche l’uomo più ricco della Roma antica, un uomo così ricco che la sua fortuna bisognava pesarla: pare ammontasse a 229 tonnellate d’argento. Crasso aveva fatto i soldi nel settore immobiliare, costruendo case di lusso sui terreni dei vinti e vendendole ai vincitori: «Questi beni li ammassò con il fuoco e con la guerra, sfruttando al massimo per il suo guadagno le sventure pubbliche», scriveva di lui Plutarco. Fu il finanziatore di Cesare, si comprò un posto nel triumvirato, la prima fila nello spettacolo che fu la fine della Repubblica. Quando si parla di oligarchia, mi piace pensare a Crasso anche per sfuggire a quel vittimismo storico che spesso fa credere di vivere nel peggiore dei mondi possibili: gli oligarchi sono sempre esistiti e hanno sempre sfruttato al massimo per il loro guadagno le sventure pubbliche.
C’è un certo allarme attorno alla broligarchy, così è stata ribattezzata, che ha accolto la seconda venuta di Trump con un’estasi più che religiosa, quasi epica. Andrea Stroppa, bro d’Italia di Musk, ha scritto su X che «l’impero romano è tornato, a partire dal saluto romano», post poi cancellato perché il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica glielo può dare Musk. E poi quello non era un saluto romano, hanno spiegato i geometri della gestualità dell’estrema destra («Il partito ti diceva di rifiutare l’evidenza dei tuoi occhi e delle tue orecchie»). In una recente puntata del Daily Show di Jon Stewart, la sociologa Brooke Harrington ha spiegato che questa non è una novità per gli Stati Uniti d’America: la storia del Paese è anche la storia dei Carnegie e dei Rockefeller, oligarchi pure loro, tanto quanto. Ma a differenza dei broligarchi, quelli volevano soltanto fare e godersi i loro bilioni, questi invece hanno un’agenda politica, molto antidemocratica, quasi monarchica.
Ma quale sarebbe questa agenda politica? Assicurarsi di non pagare tutte le tasse che possono non pagare? Capirai, che novità. Garantirsi che il governo li lasci fare, senza comminare multe né imporre regolamentazioni come quella mamma stronza che si è rivelata l’Unione Europea? E che c’è di nuovo. Andare su Marte e trasformarlo nella loro tecno-utopia? Ma volesse Iddio, così noialtri potremmo cominciare a raccogliere i cocci della Terra. Rebecca Shaw, in un op-ed scritto per il Guardian, dà una lettura del presente più affascinante e più realistica di quella di Harrington: lo sapevamo che un giorno uomini di potere avrebbero distrutto il mondo, ma era lecito aspettarsi dei Carnegie e dei Rockefeller, non questi sfigati. «Il disperato tentativo di Elon Musk e Mark Zuckerberg di sembrare fighi mentre leccano il culo a Donald Trump è così cringe che mi fa accapponare la pelle», scrive.
Trump non ha nessun merito, eccetto uno: aver ricordato a tutti che il potere appartiene alla persona il cui culo viene leccato. «Everybody wants to be my friend», scriveva con l’eccitazione dell’all caps su Truth Social dopo la sua rielezione. Dopo anni passati a raccontarci il primato dell’economia, ecco che ci ritroviamo di fronte a una delle autoevidenze della storia dell’umanità: «Power is power», come diceva Cersei Lannister. Il potere è potere ed è politico, è quella forza che spinge gli uomini più ricchi della Terra a coprirsi di ridicolo in cambio di quello che un altro uomo di potere definì «il piatto di lenticchie ministeriali». Martedì 21 gennaio, Quartz ha pubblicato un articolo in cui si spiega a che serve il famigerato Doge (Department of Government Efficiency) di Musk: licenziare dipendenti e aggiornare i software del governo federale. Duecentosettantesette milioni di dollari investiti nella campagna elettorale, per poi finire a fare un lavoro che metterebbe tristezza pure agli impiegati della Lumon Industries di Severance.
Che cos’è davvero la broligarchia? Non è potere, questo è sicuro. È un trend, è un’estetica, è una cosa di internet e come tutte le cose di internet non esiste davvero. La broligarchia è quelle pagine Instagram come Entepreneurs Being Entrepeneurs, in cui uno dei contenuti più apprezzati sono le mail sprezzanti che i Ceo inviano a dipendenti che non possono rispondere. In queste comunicazioni interne, i broligarchi emanano effettivamente quella masculine energy che Zuckerberg vorrebbe vedere irradiata nel mondo intero. Quando Bezos cazzia i lavoratori dei centri Amazon perché ci mettono troppo tempo a fare la pipì, lì si che si vedono i muscoli che ha impiegato gli ultimi 25 anni a pompare. Quando Zuckerberg rimuove gli assorbenti dai bagni dei maschi nella sede di Meta, lì sì che raccoglie i frutti degli anni passati a lottare con i suoi maestri di Mma personali nella sua palestra privata. Quando Musk dice ai dipendenti di X che chi non lavora almeno 40 ore alla settimana in ufficio può prendere le sue cose e andarsene, lì sì che si capisce cosa intende quando dice che il futuro della specie dovrebbe essere affidato ai prolificissimi lombi di «maschi altamente intelligenti» come lui. Certo, la differenza tra queste comunicazioni interne ai danni dei dipendenti e le pubbliche uscite in favore del capo (di Trump) è imbarazzante, ricorda quel meme di doge, quello vero, in cui da un lato c’è lui che si fa grande e grosso in una situazione facile e dall’altro c’è lui che si fa piccolo piccolo in una situazione difficile. Ma la ridicolizzazione non conta perché tanto viene dal popolo e il popolo il potere ce l’ha soltanto in quella canzone di Patti Smith.
Ma poi perché arrabbiarsi, la vita del broligarca è bella, la sera si ritrovano tutti alle feste organizzate da Bari Weiss – broligarca honoris causa, nonostante il grave difetto di essere femmina – per celebrare la vittoria di Trump e incidentalmente il ritorno della libera stampa: offerta gentilmente da Uber e X, c’è anche Conor McGregor che a un certo punto ci farà il gorilla, Linda Yaccarino ha detto che è un evento «epic!». Ci viene la bella gente, a queste feste: può capitare di incrociare l’amministratore delegato di Coca Cola, che ha regalato a Trump una bottiglia di Diet Coke personalizzata; oppure il Ceo di Jp MorganChase Jamie Dimon, che dopo decenni passati a spiegarci che non c’è peccato più mortale che limitare la libertà del mercato, oggi dice che dei dazi che Trump vuole imporre dovremmo «farcene una ragione» perché servono per questioni di «sicurezza nazionale». Se si è fortunati può succedere di incontrare addirittura Peter Thiel, don della PayPal Mafia, intento a spiegare le sfumature di significato della parola greca apokálypsis, come ha fatto in quel capolavoro di bootlicking che è stato il suo editoriale per il Financial Times intitolato “A time for truth and reconciliation”.
Prima ho mentito: non è vero che quando si parla di oligarchia penso a Marco Licinio Crasso. In verità penso a me stesso. Penso al fatto che nelle mani di queste persone, di questi “such losers” come li chiama Shaw, ho messo i miei dati, i miei soldi, i miei spazi pubblici e privati, il mio Paese e il mio mondo. Se loro sono such losers, allora io cosa sono? Forse perdente abbastanza per essere considerato un broligarca anche io. Ad honorem, almeno. Per reddito la vedo difficile.
Immagine in copertina: una foto dei broligarchi all’inaugurazione della seconda amministrazione Trump (Saul Loeb-Pool, via Getty Images)