Venezia città laboratorio

Da "Abitare Futuro", il nuovo numero di Urbano, dieci domande a Carlo Ratti sulla prossima Mostra Internazionale di Architettura a Venezia, che più di tutte le edizioni precedenti coinvolgerà la città come fosse un’unica, enorme arena di incontro di pensieri e nuove idee.

31 Marzo 2025

Cinque anni fa, quando Urbano pubblicava il suo primo numero, il mondo era sospeso in un limbo incerto, segnato soprattutto dalla pandemia. Oggi – dopo aver attraversato città, raccontato materiali e esplorato visioni – la rivista guarda al futuro: come saranno le città che abiteremo domani? Un interrogativo a cui ha provato a rispondere anche Carlo Ratti, curatore della 19. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, in programma dal prossimo 10 maggio, e protagonista di una delle interviste di “Abitare Futuro”, il decimo numero del magazine, che pubblichiamo nella sua interezza qui. In edicola e nelle librerie selezionate da venerdì 4 aprile, quest’edizione di Urbano riflette sulle sfide urbane contemporanee, dall’overtourism al sovraffollamento, fino alle nuove forme dell’abitare.

Il lancio del numero – con una sezione finale interamente dedicata al Salone del Mobile e al design – si terrà giovedì 3 aprile presso Studio Maiocchi 26. Un momento di incontro e di scambio per immaginare collettivamente il futuro delle nostre città (per partecipare, registrarsi qui).

Con la 19. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo Intelligens. Natural. Artificial. Collective., la città di Venezia diventerà un laboratorio vivente aperto e dinamico. Come pensa che risponderà la città?
Forse bisogna partire dal dire cos’è la città di Venezia. Ci sono i cittadini di Venezia e poi ci sono tutti coloro che vivono a Venezia per periodi circoscritti, quindi comunità diverse che penso risponderanno in modo diverso. Penso che Venezia su temi quali il cambiamento climatico possa diventare una città modello dove sviluppare soluzioni nuove, un apripista con un impatto importante rispetto alla comunità principale – quella che vive la città tutti i giorni. Poi ci sono i turisti e coloro che arrivano dall’entroterra, da Mestre e dal Veneto e ci sono tanti modi per farli interagire. Tra questi c’è il progetto Bursting bubbles – ideato da Stephan Petermann, editor di Volume – per fare in modo che scoppiando le bolle si possano creare nuove connessioni tra comunità diverse. La speranza è che la Biennale possa portare valore un po’ a tutte queste comunità attraverso un’interazione lunga sei mesi.

Il metodo Playground city da lei ipotizzato insieme al Direttore del Dipartimento di Economia di Harvard Edward L. Glaeser è applicabile a tutte le città, anche a Venezia?
Si tratta di un modello scientifico legato alla città post Covid-19. Le nostre città – che comunque hanno cambiato moltissime volte pelle negli ultimi diecimila anni – secondo noi stanno ancora cambiando. Gli spazi del lavoro che venivano utilizzati dal lunedì al venerdì oggi vengono usati in modo diverso e già questo cambia la logica delle città. Quello che è il motore della città fin dall’inizio – ossia essere un luogo che permette alle persone di incontrarsi – resta. Oggi più che mai quindi vale questa idea delle città playground, dove gli incontri, all’interno di questo spazio, passano da essere codificati a essere più spontanei. Venezia è un po’ un’eccezione, una città molto diversa da tutte le altre. Da un lato perché la sua comunità ormai è un po’ ridotta al lumicino – parliamo di meno di cinquantamila persone – dall’altro perché è una città che attrae tutte queste comunità temporanee composte da chi viene per qualche mese, qualche settimana, qualche giorno o anche solo per qualche ora, come accade con le crociere. Non rientra nello stesso paradigma, ma quello che è interessante di Venezia è che le grandi istituzioni della città, a partire dalla Biennale, creano un effetto molto simile a quello della playground city: uno spazio deputato a riunire diverse persone da tutto il mondo, da cui nascono idee e speriamo tante occasioni positive.

Se dovesse aggiungere Venezia nel suo libro Urbanità. Un viaggio in quattordici città per scoprire l’urbanistica – pubblicato da Einaudi nel 2022 – dopo la sua Biennale come la descriverebbe?
Le varie città di Urbanità mettono insieme tre cose: il reportage, il trattato di urbanistica e la ritrattistica, con personaggi chiave di un determinato tema o contesto. Per esempio, il racconto di Rio de Janeiro parte da un reportage fatto di spiagge e della struttura urbana cittadina – con l’informalità delle favelas e di quello che significano per la città – e ha come protagonista Washington Fajardo, braccio destro architettonico del sindaco Eduardo Paes negli anni di preparazione alle Olimpiadi del 2016, poi diventato Assessore all’Urbanistica. Nel caso di Venezia il tema più interessante potrebbe proprio essere la città laboratorio. La città più fragile sul pianeta di fronte ai cambiamenti climatici – oggi il Mose ha fatto guadagnare tempo alla città, qualche decennio, ma comunque si tratta solo di una soluzione temporanea – che, anche grazie alla Biennale, diventa un laboratorio per sé stessa e per tutte le altre.

A proposito del Mose, durante una conversazione in radio alla Bbc aveva lanciato una provocazione chiedendo: «E se fosse meglio lasciar affondare Venezia?» Uno scenario evitabile?
Proprio a questo tema sarà dedicato uno dei saggi del catalogo della Biennale, una delle conversazioni impossibili tra il Nobel dell’acqua Andrea Rinaldo e John Ruskin. La teoria di Ruskin è basata sul fatto che gli edifici debbano in qualche modo invecchiare, diventare rovine e poi scomparire, così come gli organismi umani. Andrea Rinaldo, da ingegnere, afferma invece che noi dobbiamo trovare soluzioni per quando, tra cinquant’anni, il Mose non basterà più e la laguna sarà separata dal resto dell’Adriatico, insieme a tanti altri problemi. Ruskin risponde che proprio il disfacimento di Venezia è «poetry in motion». Insomma, da questa conversazione impossibile emerge in maniera spettacolare una tensione tra due approcci. Ciò che è fondamentale è quello da cui siamo partiti, ovvero che non c’è civitas senza urbs: è impossibile salvare la città fisica senza la sua popolazione.

L’illustrazione che accompagna l’articolo – la prima di tre presenti nella rivista – è stata realizzata da Elisa Terranera (Instagram: @elisaterranera)

E la sua conversazione impossibile?
Io l’ho fatta con Cristobal Alexander sui meccanismi di partecipazione, tema a cui ha dedicato moltissimo del suo lavoro negli anni Sessanta-Settanta. In particolare, su come quei meccanismi possano essere rivisti oggi alla luce della rete e delle nuove tecnologie.

Nel suo intervento in conferenza stampa ha citato alcuni scenari di distruzione recenti, come Los Angeles, Valencia e la Sicilia; il Presidente Pietrangelo Buttafuoco ha parlato dell’Ucraina poi, per esempio. Lei sente che il ruolo di curatore della Biennale 2025 abbia una responsabilità maggiore dovuta al momento storico che stiamo vivendo?
Entrambi gli scenari, quello dovuto al cambiamento climatico e quello dovuto alle guerre, si possono inserire nella categoria di un mondo che cambia. Adaptation vuol dire adattarsi al mondo che cambia e ha molteplici dimensioni. La Biennale vuole essere un po’ un manifesto per chiamare a raccolta tante intelligenze – naturale, artificiale, collettiva – con l’architettura al centro, per cercare di dare delle risposte. Il curatore può mettere insieme queste voci e saranno poi loro a dover cantare insieme.

A proposito di intelligenza artificiale, si è appena concluso l’AI Action Summit a Parigi e il Presidente Macron ha lanciato l’idea che la Francia possa diventare la guida di un’AI europea. Secondo lei siamo ancora in tempo per recuperare il ritardo accumulato nello sviluppo dell’AI?
C’è ancora tempo e siamo ancora all’inizio di questa trasformazione. Penso però che il summit sia una cosa interessante e anche che la soluzione non possa venire da una decisione presa dall’alto – questo vale sia in America che in Cina. I primi risultati non sono arrivati per iniziativa governativa ma proprio grazie al lavoro di aziende. Questa discussione serve a rendere il terreno più fertile ma non credo si possa vincere la sfida dell’AI per decreto. La collaborazione fa proprio parte di come si fa innovazione: è così negli ecosistemi innovativi degli Stati Uniti, dalla Silicon Valley a Boston, dove vivo io.

Qual è il luogo di Venezia che risponde a tutte queste sfide?
Forse proprio l’Arsenale, luogo di produzione e di innovazione.

In che modo grandi manifestazioni italiane riconosciute in tutto il mondo – la Biennale ma anche il Salone del Mobile – possono portare avanti il suo ideale di città del futuro?
La Triennale di Milano, la Biennale di Venezia, la Design week, le Olimpiadi: tutte queste iniziative hanno qualcosa in comune, ovvero la temporaneità. E questo è molto importante per due motivi. Primo, perché permette agli architetti di esplorare di più, di fare innovazione più spinta: quello che non si può fare se si costruisce un edificio che deve durare cinquanta o cento anni o per sempre si può fare, invece, per qualcosa che dura qualche settimana, qualche mese o qualche anno. L’abbiamo visto nel 1900, con alcuni esempi molto belli che sono rimasti nella storia dell’architettura o addirittura nel secolo precedente, come con la Torre Eiffel di Parigi, nata proprio in occasione dell’Esposizione Universale del 1889. Secondo, perché gli eventi temporanei rappresentano una fase di ascolto utile a capire cosa piace e cosa non piace alle persone, cosa tenere e come trasformare il temporaneo in permanente.

Questa Biennale è molto inclusiva. Ci sarà spazio anche per i bambini?
La struttura dell’allestimento è una struttura frattale che mette insieme fisico e digitale e che permette di creare delle gerarchie. È una Biennale che può essere vista in un’ora, un giorno o una settimana, a seconda del livello di dettaglio che uno vuole scoprire. E proprio tra questi livelli credo e spero ci sarà anche un livello molto piacevole per leggere questa Biennale non con gli occhi di un architetto, ma di sicuro con gli occhi di un professionista e anche con gli occhi di un bambino.

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