Ho sentito dire, da persone senza figli, con figli grandi, o divorziate: «Per carità, non andiamo a cena da loro: alle nove, uno dei due sparisce in camera dei bambini e non torna più».
Il gesto del mettere a letto i figli è diventato una prova del fuoco della genitorialità. Si richiede addormentamento veloce e indolore, efficace e definitivo: i piccoli demoni nottambuli non devono più uscire da quella stanza per tutta la notte (bere, pisciare, tossire, fare incubi). Bisogna che si addormentino in fretta, che lo facciano da soli, o, se la compagnia dell’adulto accelera il processo, bisogna evitare di rilassarsi e addormentarsi con loro, perché in salotto ci aspettano gli ospiti col secondo lasciato a metà, o il marito con la puntata di una serie in standby. Bisogna ricordarsi di soffiare bene i nasi, o la serata verrà interrotta da piagnucolii nemici della socialità e della coppia, bisogna averli fatti bere un po’ d’acqua, ma non così tanta da incoraggiare la diuresi notturna. Il nervosismo attorno all’abilità di farli dormire (come se dormire fosse un verbo che conosce veramente la forma passiva), e all’attesa del tempo libero che ci aspetta oltre la loro veglia, è così elettrico in noi che possiamo contagiarli anche se avevano sonno. Se per caso ci arrendiamo ad appoggiarci al cuscino, ci svegliamo di soprassalto qualche istante dopo, che in realtà è mezzanotte e la porta si chiude alle spalle degli amici.
Il sito di Nati per leggere, l’associazione di medici e genitori lettori, dedica una pagina al tema, sostenendo che le storie della buonanotte calmano, coccolano e “consolano” (ma consolano, poi, da cosa, esattamente?). I libri consigliati hanno come protagonisti orsi, conigli, o principesse musone che devono andare a dormire, ma si oppongono strenuamente alla nanna sin dal titolo. L’inglese ha un’espressione spiccia per il genere: Bedtime stories. Come favole della buonanotte, ma un po’ più bello. Da che mondo e mondo, anzi no, dal milleottocento, quando è fiorita la letteratura per l’infanzia, questa branca del “sapere” afferiva interamente alla sfera umanistica. Oggi, la pseudo-scienza sembra indicare vere e proprie tecniche narrative sonnifere: i Racconti da leggere prima di andare a dormire di Estivill sono raggruppati in capitoli che trattano diverse paure. La sinossi dice che il libro agirebbe addirittura «rompendo stati di paralisi emotiva».
Oltre ai saggi di Estivill, Feltrinelli pubblica anche 100 storie per quando è troppo tardi, della collana Save the Parents (quegli stronzi dei parents), che teorizza la brevità del racconto serale in pillole, di modo che possa essere dispensato last-minute, su capriccio, sottraendo al genitore minime porzioni del suo divertimento serale. Mrs Ramsay, il personaggio femminile di Gita al faro di Virginia Woolf, pensa che i bambini non dimentichino mai, e proprio per questo per lei «era un sollievo quando andavano a letto: allora non doveva pensare più a nessuno». Allora, «tutto quel suo fare, quell’essere, espansivo, scintillante, vocale, svaniva e si chiudeva […] in qualcosa di invisibile agli altri […] Non si trovava mai riposo quando si era sé stessi […] ma solo quando si era un nucleo di buio».
Ci sentiamo improvvisamente colpevoli di non avergli neanche chiesto una misera notizia della loro giornata
Ora, dubito che tutti i genitori che comprano Fate la nanna, o che hanno osannato il libretto del 2011 Go the fuck to sleep (filastrocche sui minori vietate ai minori, e tradotte da Mondadori col titolo Fai la c**** di nanna) abbiano un nucleo così profondo dove andare a girovagare quando costringono i loro figli a addormentarsi alle otto e mezza. È più onesto Joey Tribbiani, in Friends, quando, dopo aver cambiato casa per «restare solo con i suoi pensieri» confessa agli amici di essersi accorto di «non avere poi tanti pensieri». Ed è un po’ questo quel che capita, dopo aver costretto a letto i figli coi metodi più efferati. Tutte le nostre velleità di svago si sgonfiano e ci sentiamo improvvisamente colpevoli di non avergli neanche chiesto una misera notizia della loro giornata; li guardiamo sudare nei loro pigiami pesanti, spesso col respiro che raspa, e i misteri di quel giorno persi per sempre. Ok, dormono. E adesso?
Uscendo dal campo della pseudo-scienza, e tornando in quello della letteratura, non ci voleva un motivatore per scoprire che i libri per bambini hanno per lo più un finale meta-narrativo, col protagonista che si infila placido sotto le coperte.
Mi è bastato ripulire un solo scaffare della mia libreria per l’infanzia per trovarne una quindicina, tra cui il mio vecchio Buona Notte Lauretta, del 1983, Fabbri Editore, con la bambina che prega in ginocchio prima di andare a dormire. I Topi Pittori ultimamente ne hanno pubblicati diversi, Il grande libro dei pisolini, Ninnananna per una pecorella, C’era una volta una storia. Il mio preferito è Sonno gigante, sonno piccino. L’autrice, Giusi Quarenghi, sul blog dell’editore si dichiara tesa come ogni genitore moderno in preda al «ssst, non fare rumore – no, non può essere, chiama già, chiama ancora – cosa faccio: lo tiro su o resisto? […] è troppo sveglio, troppo stanco, troppo curioso, troppo teso, ha mangiato troppo, ha mangiato troppo poco, c’è troppo chiaro, troppo buio, troppo vento, troppo caldo, troppo rumore, troppo silenzio…». Diventa invece woolfiana quando conclude che «nonostante tutto, a un certo punto […] chiudono gli occhi e si addormentano. A volte scivolano lenti […], a volte cascano di botto, sprofondano, come colpiti da qualcosa di invisibile e repentino; a volte, basta niente; a volte, non basta mettercela tutta […] Ma poi, quando succede, ti incanti a guardare come sono, nel sonno, e una tenera allegria bonifica ogni fatica e la trasforma nel desiderio che si sveglino e ti cerchino».