Cultura | Letteratura

Niviaq Korneliussen racconta la luce e il buio della Groenlandia

Classe ‘90, con La valle dei fiori è diventata la più importante scrittrice groenlandese: l'abbiamo incontrata a Milano per parlare dei suoi libri e del suo Paese, di Trump e di colonialismo.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Niviaq Korneliussen è una millennial classe ‘90 ed è considerata la principale voce narrativa groenlandese di portata internazionale. Il suo esordio, Homo sapienne, nel 2014, è stato tradotto in dodici lingue ed è un libro che parla di com’è essere queer nella capitale Nuuk (uscirà a giugno per Iperborea col titolo Una notte a Nuuk). All’epoca, Korneliussen rifiutava la lettura postcoloniale della sua opera: diceva di trattare altre questioni, che non c’entravano niente con quella faccenda. Dopo l’uscita nel 2023 de La valle dei fiori (ne abbiamo scritto anche qui), un romanzo buissimo, ma anche erotico e pieno di humour, che punta i fari sul record di suicidi giovanili nel suo paese, è diventata più consapevole. L’ho incontrata a Milano durante il festival Boreali – aveva l’influenza, passata dal figlio, perché nel frattempo ha avuto un figlio – e mi ha confessato di aver cambiato idea sul rapporto tra la sua opera e la storia coloniale del suo Paese.

ⓢ La protagonista del tuo libro, da bambina, è attratta dalla figura dello spirito della montagna, un eremita che si è scavato una grotta su un’altura. Volevi parlare della solitudine del grande nord, o del rifiuto delle convenzioni sociali da parte di alcuni individui?
Sono due aspetti strettamente connessi. Siamo estremamente isolati tra noi e dal resto delle comunità groenlandesi, perché le città sono lontanissime e non si può viaggiare a meno di non avere un sacco di soldi. La solitudine e l’oscurità sono parte integrante della nostra vita. La maggior parte di noi, a un certo punto, si sente profondamente solo. Inoltre, sta succedendo così tanta roba, nella società groenlandese… Cosa accadrà nel futuro? Ci separeremo completamente dalla Danimarca? O andremo in una direzione diversa? Questa crisi identitaria stratificata porta altra solitudine nella nostra società. Quindi è la stessa cosa: la solitudine e le anime perse. La Groenlandia è così selvaggia ed estrema… Sai quando cresci, non pensi, wow, è così selvaggia ed estrema, perché ci sei abituato. Ma quando inizi a viaggiare all’estero, realizzi che la natura ha un impatto fortissimo sull’essere umano. Nelle altre società, puoi controllare il tempo, puoi tenere sotto controllo un sacco di cose. Ma in Groenlandia, è la natura ad avere il potere su di te.

ⓢ Quindi la Groenlandia, nei tuoi libri, è principalmente un luogo ultra-specifico, o piuttosto una specie di provincia dell’anima, in cui tutti possono trovarsi a un certo punto della vita?
Il mio libro è riconosciuto anche in società diverse da quella groenlandese, probabilmente perché esprime temi universali. Ma per me è importante focalizzarmi sulla mia società, perché nessuno parla della Groenlandia. Nemmeno i groenlandesi scrivono libri su di noi. Di solito sono i danesi che vengono e girano documentari sulle nostre storie. E questo è controverso, perché devi conoscere da dentro una società per poterla davvero raccontare. È importante per me essere una voce forte per le persone giovani del mio paese, raccontare le loro vite.

ⓢ Il tuo attivismo è parte della tua identità di autrice?
È molto difficile per me separare queste due parti. Automaticamente quando scrivi le storie dei groenlandesi, diventi una voce che è responsabile di qualcosa. Prima lottavo per tenere separate le due identità, ma ora penso che sia giusto tenerle connesse. È solo un po’ stancante, perché a volte senti tutto il peso sulle tue spalle. Con questo libro, per esempio, ho pensato che dovevo fare qualcosa per la prevenzione del suicidio nel mio Paese.

ⓢ Pensi che i giovani siano la fascia di popolazione più trascurata dal governo del tuo Paese, o in generale nel mondo?
Forse a livello globale. Viviamo un momento in cui c’è un gap enorme tra le generazioni: quelle più anziane cresciute senza social network, e i giovani che vivono in un mondo così pieno di aspettative verso di loro. E penso davvero che gli adulti non capiscano i giovani. Quindi in qualche modo, sì: penso che siano trascurati. Perfino in un Paese ricco come la Danimarca, con un ottimo welfare e un ottimo sistema sanitario, ci sono comunque un sacco di giovani depressi. I social media sviluppano criteri di soddisfazione e successo altissimi. E in Groenlandia è ancora peggio, perché il sistema non funziona. Non abbiamo abbastanza professionisti, psicologi e dottori, che possano sbrigare tutto il lavoro. E il governo non dà priorità all’assistenza sanitaria. Conoscevo tante persone che hanno cercato aiuto ma non lo hanno trovato, e alla fine si sono tolte la vita.

ⓢ Qualcuno ha visto il tuo libro come una denuncia dell’abbandono in cui gli Inuit versano nella cultura globale del Terzo millennio…
Ho preso una grande distanza dal tema della decolonizzazione mentre scrivevo il mio primo libro, perché pensavo non c’entrasse niente. Poi mi sono resa conto che tutto quel che scrivo è postcoloniale. È importante capire l’impatto che il governo danese ha avuto sulla nostra società. Ho scoperto solo due anni fa che dopo il 1953, e cioè con la modernizzazione forzata del Paese, il tasso dei suicidi aumentò drasticamente. Allora ho realizzato che forse questa è proprio una delle ragioni per cui la nostra società soffre così tanto. Penso che accettare questa prospettiva sia un po’ la mia “decolonizzazione” personale.

ⓢ Quale impatto hanno avuto i difficili rapporti con la Danimarca su di te?
Mio padre è del 1954 e visse in prima persona le conseguenze dell’industrializzazione imposta dai danesi e della danesizzazione forzata. Da piccolo gli dissero: se non diventi danese, non varrai mai abbastanza. E più tardi gli dissero: okay, adesso ci separiamo dai danesi, e proveremo a essere totalmente groenlandesi. Sono grossi cambiamenti in una vita così breve! Mia madre ha 13 anni meno di mio padre. Al tempo, gli uomini danesi venivano da noi lavorare un paio d’anni e avevano figli con le donne locali. Il governo danese li protesse: tornarono a casa loro e gli fu permesso di disconoscere i figli avuti in Groenlandia. Mia madre era una di quei bambini e non conobbe mai suo padre. Ci furono cambiamenti così drastici in così poco tempo, che tutta quella generazione ne fu colpita. Ma è anche molto difficile vivere in Groenlandia adesso: dopo tutto ciò che ha fatto il governo danese, sopportare le cazzate sparate da Trump. Si parla molto di indipendenza, di diventare una nazione.

ⓢ Cosa pensano i groenlandesi delle affermazioni di Trump?
Beh, la prima reazione è stata: non vogliamo avere niente a che fare con Trump. E la seconda reazione, anche. Non vogliamo diventare parte degli Stati Uniti. È la cosa più stupida che abbiamo mai sentito! Ma dopo la sparata di Trump, anche la Danimarca ha reagito. C’era molto conflitto tra noi e loro, ma ora la Danimarca sembra improvvisamente disposta a “venirci incontro a metà strada”. Ma non succederà, possiamo dimenticarcene.

ⓢ Dove vivi ora?
Vivo in Groenlandia. Non è facile. Molti bambini e giovani soffrono e bisognerebbe parlarne di più.

ⓢ Tu lo fai.
Lo faccio, ma mi sento un po’ sola in questo. Non posso fermare da sola il tasso di suicidi.

ⓢ Hai un figlio ora. Hai paura di farlo crescere in una società con questo tipo di problemi?
Sì, avere figli è sempre una scelta egoista. E oggi più che mai. Non abbiamo idea di cosa accadrà quando avranno cinquant’anni e fa paura.

ⓢ Il tuo esordio era scritto nella tua lingua madre. Invece questo libro lo hai scritto prima in danese, poi nella tua lingua. Come mai?
È stata una decisione pratica. I miei editori parlano danese. Quindi se avessi fatto la prima bozza in groenlandese avrei dovuto tradurlo per farglielo leggere, poi tradurre il loro editing. Da bambina, a scuola, la maggior parte dei libri era in danese. Dal dottore è tutto in danese, su internet scrivi in danese. Scrivere il libro in questa lingua è stato facile per me. Mentre lo scrivevo, sentivo che mi apparteneva. Ma quando l’ho tradotto in groenlandese, ho instaurato una relazione col libro, ho iniziato a provare sentimenti per lui.

ⓢ In un punto del libro, per illustrare un atteggiamento meschino della famiglia groenlandese della protagonista, dici che amano guardare cadere la gente sul ghiaccio. In questo giudizio, c’è una presa di distanza dalle tue origini?
Il mio personaggio prende distanza dalla sua gente. È sempre un problema di ricerca identitaria, quando sei giovane. La comunità è forte, unita: col suo humour, col suo cibo. È difficile non seguire la norma, se ti senti un po’ diverso. Se non mangi carne di renna e zuppa di foca, sei già strano. Così, mentre si cresce, può capitare di uscire dalla norma molto velocemente. Al mio personaggio succede così. Non c’è niente di tragico nella sua vita, non è una persona con una storia di abusi subiti o alcolismo: questi elementi avrebbero preso tutta la scena. Volevo dire che puoi sentirti escluso da una forte comunità anche solo essendo te stesso.

ⓢ Però la sua famiglia è molto aperta verso il suo essere queer. Questa è una cosa scontata da voi?
Devo dire di sì. Okay, nei piccoli villaggi, magari, è difficile essere omosessuali anche in Groenlandia. Ma non abbiamo episodi di odio, l’omofobia è nascosta. Non puoi andare in giro e dire cose omofobiche: è molto impopolare. In genere anche gli anziani sono estremamente aperti. Abbiamo molti più diritti che in Italia: adottiamo, ci sposiamo in chiesa. E credo che questo abbia radici nella nostra cultura prima della colonizzazione, trecento anni fa. Prima del cristianesimo, le nostre credenze erano legate alla natura, al tempo atmosferico, agli animali. Molte persone erano sessualmente fluide. Le coppie non fertili potevano semplicemente uscire, fare sesso con qualcun altro ed ecco che avevano il loro bambino. Le coppie gay mettevano su famiglia così, e poi si accordavano: una di noi esce a caccia, l’altra resta coi figli. Per questo siamo stati così veloci a tornare di mente aperta. Sono molto fiera di questo. Tutti i partiti da noi sono favorevoli ai matrimoni gay e alle adozioni gay.

ⓢ Prima hai citato il vostro humour. Essere groenlandesi significa anche avere un umorismo del tutto diverso?
Assolutamente sì. È uno dei motivi per cui noi e i danesi facciamo così fatica a entrare in contatto. L’umorismo danese è un umorismo molto sarcastico, insito nella lingua. Loro non ridono forte. Quando un insegnante danese entra in una scuola da noi e fa del sarcasmo nessuno lo capisce. Il nostro humour non è nella lingua, è molto fisico, quando una persona fa qualcosa col corpo ci fa molto ridere. È più diretto, invece di essere imbrigliato in tante parole.

ⓢ Il tuo libro sui suicidi riesce a essere a tratti buffo e leggero. Come hai ottenuto questo effetto?
È una necessità per un libro così cupo. E poi mi devo divertire mentre scrivo. Mi dà energia e ispirazione quando lo humour attraversa la scrittura.

ⓢ A un certo punto, il tuo personaggio vola nella Groenlandia orientale dove esplora un cimitero di fiori di plastica dedicato ai giovani suicidi Inuit. Esiste davvero?
Sì, è un posto vero. Ieri una giovane influencer mi ha chiesto se il problema del suicidio è reale e a che livello. Le ho detto che è molto peggio che nel libro. Rendere giustizia a tutte le persone che hanno vissuto questo trauma per me era un problema etico. C’è tanta fiction nel libro, ma tutto quel che dico a proposito del sistema sanitario e dei dati sui suicidi è vero.

ⓢ Perché niente nomi sulle croci?
Penso che non ci siano abbastanza soldi. Sono comunità molto povere. E poi sono talmente tante le persone che muoiono, che chi resta ha bisogno di voltare pagina in fretta. Siccome non c’è aiuto professionale, il 50 per cento delle persone che conoscono un suicida rischiano di suicidarsi. Quindi un modo per sopravvivere è accettare in fretta la morte di questi giovani. E poi siamo persone spirituali, vicine alla natura, vediamo anche la morte come un suo aspetto. Non crediamo nel paradiso, ma nelle anime che vanno avanti verso un prossimo mondo.

ⓢ Nel libro citi la scarsa produzione di serotonina nei mesi di buio come causa di depressione. Ma statisticamente la maggior parte dei suicidi avviene in primavera. Puoi dirci qualcosa di più?
Ogni cambio di stagione è difficile per le persone. Quando diventa sempre buio, è dura. Ma è dura anche quando viene la luce. C’è un motivo: le persone attraversano l’inverno credendo che quando torneranno la luce e il calore tutto andrà meglio. Ma poi la luce torna, il caldo torna, ma le cose non cambiano veramente. Allora decidono di suicidarsi. E poi ci sono i fattori chimici del cervello: c’è tanta insonnia durante l’estate polare, e io stessa, che mi sono trasferita dal sud a Nuuk, e ora ci vivo da dieci anni, ho problemi con la bella stagione. Divento un po’ pazza. Ti senti come se dovessi vegliare tutto il tempo. È qualcosa di molto innaturale per il corpo. Ma luce e buio sono solo un piccolo elemento per capire la questione dei suicidi, non sono la chiave.

ⓢ È strano. Siete immersi in questa natura maestosa che rispettate e a cui attribuite un’anima. Eppure l’alternanza luce-buio è così innaturale…
Sai, potrebbe essere più “naturale” se la società fosse strutturata diversamente. Nelle città più settentrionali, ad esempio, le comunità hanno forme di adattamento. In estate, lavorano poco, così possono portare fuori i bambini di notte, quando c’è il sole. Si caccia molto, si sta nella natura, e si dorme quando se ne ha voglia. Probabilmente prima della modernizzazione forzata del paese, le persone avevano strategie migliori per adattare la loro giornata alle ore di buio e di luce.

La foto in copertina è di Emil Helms (Ritzau Scanpix/AFP via Getty Images)