Neffa è tornato per ricordare a tutti che è lui il virtuoso del rap italiano

Abbiamo intervistato il cantante, appena tornato sulla scena con Canerandagio Parte 1: ci ha parlato (ovviamente) di hip hop, di hardcore, di Napoli, di Milano e di cosa ha fatto in questi anni di "assenza".

22 Aprile 2025

Neffa è abbastanza unanimemente riconosciuto, perfino dai suoi colleghi, come il miglior rapper italiano di sempre, almeno da chi ascolta il genere da tempo. Prima con i Sangue Misto, poi con due formidabili dischi solisti e infine con un EP rivoluzionario (Chicopisco, 1999) ha mostrato a tutti la via realizzando dischi allo stesso tempo complessi e immediati, inventando una grammatica che è diventata Vangelo per gli adepti. Poi il cambio di passo: l’addio al rap e al suo mondo ormai asfittico, sei dischi di canzoni, addirittura un album di canzoni napoletane (AmarAmmore, 2021) e una distanza dagli esordi che sembrava incolmabile. È significativo pensare che, per anni, durante i suoi concerti, di “Aspettando il sole” (forse il più bel brano rap del nostro Paese) cantava soltanto il ritornello, quello che su disco era affidato alla voce di Giuliano Palma.

Ovviamente però i suoi tanti discepoli non hanno mai smesso di sperare in un ritorno alle origini: “Neffa che torna al rap” come un sogno, un’ipotesi quasi impossibile. Negli ultimi anni, lentamente, c’è stato qualche segnale: una traccia nascosta, qualche featuring, un’ospitata al Miami, e infine la collaborazione sul palco di Sanremo con Shablo, Gué, Tormento e Joshua, rappando proprio una strofa di “Aspettando il sole”, e soprattutto l’annuncio di Canerandagio Parte 1, il disco che avrebbe finalmente sancito il tanto atteso ritorno, anticipato da un’intro che ha fatto sussultare molti cuori per “il ritorno del guaglione sulla traccia”. L’album è uscito venerdì 18 aprile, pieno di featuring come da tradizione, tra rapper ampiamente consolidati (Noyz, Gué, Fibra) e più giovani (Izi, Franco126, Frah Quintale, la freschissima Ele A), cantanti (Joan Thiele, Francesca Michielin, Myss Keta) e ancora spazio per il mondo partenopeo (Lucariello e Ste). È un lavoro scuro e minimale, che il suo autore ci racconta essere fluito senza volerci pensare troppo, e che ha il sapore, non solo per quel “parte 1” nel titolo, soltanto di un primo passo.

Incontriamo Neffa in una Milano piovosa, negli uffici della Sony, e lo troviamo allegro e disponibile, ciarliero e scherzoso, soddisfatto.

Cominciamo con una domanda originale: come mai dopo ventisei anni sei tornato al rap? Cosa è cambiato in te o nel mondo?
Ti dico la verità: da molti anni non ho più una programmazione, un binario su cui correre, sono un battitore libero. La musica per me è la più grande via di fuga dalla realtà, amo farla. Posso ringraziare il fatto di non avere una vita piena di vizi, ho una vita tranquilla, negli anni mi sono pagato la mia casetta con i miei diritti, insomma non sono uno che fa i dischi perché ha delle necessità economiche. Nella vita non sopporterei l’idea di trovarmi a fare dischi per quello, non lo farei mai, amo troppo la musica. Questo mi ha creato anche dei problemi… Ci sono stati dei momenti in cui continuare la mia carriera avrebbe rovinato il rapporto che ho con la musica, che è la mia salvezza (“salvami, risplendi e scaldami”), e quello per me è sempre stato prioritario su tutto. Quando quella cosa è stata messa in discussione ho sempre dato dei tagli alla carriera, per esempio banalmente nel ’99, 2000: la presa di coscienza del fatto che se continuavo a fare rap avrei fatto una musica che stavo facendo per gli altri, mentre se avessi scritto il disco di canzoni che mi stavano uscendo da sole avrei seguito la mia naturale ispirazione, e io sono uno che sceglie la naturale ispirazione.

Dopo tantissimi anni è successo un po’ misteriosamente. Certo le premesse erano che avevo prodotto moltissima musica strumentale già trap prima, poi rap: negli ultimi quattro anni ho prodotto continuamente basi. Una cosa che non sanno in molti è che io amo fare musica e la faccio tutti i giorni, mentre la decisione di proporla a un pubblico poi invece è una scelta. Tendenzialmente la identifico anche spesso con alcuni aspetti negativi: nel momento in cui ti metti su un mercato, comunque, che tu lo voglia o no, hai un cartellino del prezzo, hai chi ti ama e chi ti odia, e sono cose che magari su una persona sensibile e schiva possono avere effetti non gradevoli. Però quando la musica è talmente potente da rendere necessario il fatto di dire “ok questa musica mi è uscita con una tale intensità, verità e potenza che non posso non farla sentire”, allora a quel punto io esco coi dischi. E quando mi sono trovato alla terza o quarta canzone rap mi sono reso conto che stavo facendo un album rap. A quel punto ero preoccupato. Mi facevo molte più domande che per un disco di canzoni: “Ma veramente? Veramente vogliamo andarci a infilare in questo guaio?” Però vedevo che le canzoni uscivano naturalmente.

Considera che tutte queste strofe sono state fatte in non più di dieci minuti, un quarto d’ora. La produzione, magari, qualche ora o due giorni la lavori, ma la strofa volevo che fosse veramente un flusso di improvvisazione, proprio per essere certo che non ci fossero sovrastrutture di pensiero. Questo è stato il processo che ho seguito: ho cercato l’essenza cruda sia nella musica che nel pensiero. Sapevo che non avrebbe avuto senso per un uomo come me, con la mia storia, in questo momento fare i testi puramente hip hop (a parte un po’ la intro che è un gioco), “ti parlo del mio stile, della mia cumpa”: non ce l’ho la cumpa.

Sapevo che mi interessava un immaginario quasi letterario, per quanto riguardava la narrazione, su sonorità crude. E poi sono cose che capisco facendo le interviste, riflettendoci! L’immaginario letterario c’è un sacco: infatti quando crei la musica, certe basi hanno sonorità un po’ più cinematografiche. E immediatamente l’immaginario letterario rende un pezzo molto cinematografico: perché già la musica ha quella cosa, in più se io dico “il mio rap è meglio del tuo” funziona meno di dire “un giro al porto quando fanno il contrabbando/nascosto al buio uno come me protegge il territorio”, è un’immagine cinematografica.

Questa cosa delle strofe in dieci minuti è diversa rispetto a quando facevi rap in passato? Se penso a una strofa di 107 Elementi mi sembra molto lavorata.
Erano molto complesse, scritte e lavorate. Ai tempi si lavorava con la penna sulla carta. Considera che dal 2010 non ho mai più scritto niente sulla carta. È una questione che mi sto ponendo proprio ora, pensandoci: effettivamente non ho voluto assolutamente lavorare sulla limatura o sulla riscrittura. Ai tempi stavo con un loop nelle orecchie anche tutto il giorno, anche per due o tre giorni, forse una settimana. Sempre. Oggi dopo un’ora che sento un loop mi dico “da questo momento in poi qualsiasi altra cosa io metterò qua sopra sarà frutto di un pensiero”, e ho notato che quello che io sento è molto meglio di quello che penso. Non voglio pensare, stacco, mi metto a fare altro.

Il disco è un po’ minimale, lo-fi, scuro, come atmosfere.
Penso sia stata fondamentale la terza fase, quella milanese. La vedi Milano: è piena di idee ma è sporca, è un posto per tutti ma è violenta. Milano è scura. Eppure c’è più cielo azzurro che a Bologna. Ci sono alcune basi di questo album che erano state prodotte in un tempo precedente che suonavano con un po’ più di frequenzine, e invece qui a Milano le ho sporcate, ho voluto dare quel tono sporco a tutto. Presumo sia successo per un motivo, perché ce l’avevo attorno. Io cerco di non pensare, come ti dicevo. C’era un pezzo in particolare prodotto a Berlino che aveva tutti gli alti molto chiari e ho detto “no, no, scurire, sporcare”. Questo disco volevo farlo così, che avesse dentro l’essenza della crudità.

Ti sei vissuto in pieno le faide del rap italiano degli anni Novanta, ora ci sono i social. Cosa è peggio, cosa è meglio?
Niente è meglio. Sarebbe meglio che la gente lasciasse la possibilità a chi crea musica di non essere troppo condizionato, però ogni epoca ha le proprie forme. Ai tempi dovevi litigare di faccia, il beef lo portavi avanti anche fisicamente in termini di confronto, faccia a faccia nelle jam, e tutto partiva dal modello americano: loro avevano la sfida, noi italiani abbiamo voglia di litigare! Ma ormai è così ovunque, se vai sul sito della De Longhi e c’è la nuova friggitrice troverai gente che litiga anche per quello, perché dice che la versione vecchia era meglio e quelli che vogliono le friggitrici moderne sono delle merde. La gente ha voglia di litigare, poi abitiamo nel Paese dei guelfi e ghibellini, e i guelfi a loro volta divisi in bianchi e neri… Noi italiani amiamo la possibilità di creare fazioni.

Questo è il mio primo disco social e mi viene sempre più in mente una frase di Alessandro Bergonzoni: «Mi piacerebbe che la violenza fosse disgiunta dal dolore in modo da poter picchiare qualcuno con la mazza solo per sentire che rumore fa». Secondo me molte parole d’odio che tu ricevi oggi non sono veramente parole d’odio, è solo gente che vuole sapere che rumore fa il tuo eventuale dolore. Tutti sono capaci di essere piccioni sui social, ma nel momento in cui tu sei statua e arrivano i piccioni poi tutti quanti dicono “ma no, io scherzavo”. Finché non tocca a te che cinquanta, cento, mille persone ti dicono una cosa brutta, tu sei un entusiasta dei social, il giorno che tocca a te basta, chiudi il profilo. Ho visto molta gente che dopo che ha preso le botte non era più così entusiasta. Io sto imparando a capire che è un po’ come la violenza disgiunta dal dolore.

A un certo punto nella tua presa di distanza rispetto al rap hai anche detto che ti veniva facile, mentre fare canzoni era più difficile, una sfida, e in quanto tale una cosa “più alta”. A volte secondo me gli artisti sottovalutano quello che gli viene facile, pensano sia una cazzata, invece magari è solo che hanno un particolare talento per quella cosa.
Non penso che sia una cazzata, anzi quando mi sono ritrovato a scrivere questo album mi sono detto “accidenti, io sono un virtuoso a fare il rap”. Era strano non avere fatto per tanti anni una cosa in cui io sono un virtuoso. A volte cerchi qualcosa su Google e poi sotto ti capita “altri hanno chiesto”: mi ricordo un giorno avevo cercato qualcosa su uno strumento, forse il sassofono, e sotto c’era “altri hanno chiesto: qual è lo strumento più difficile da suonare?”. Ho aperto e c’era scritto la batteria! Come la batteria?? Io la batteria l’ho iniziata a suonare con le bacchette del ristorante cinese sui bonghetti a tredici anni, la batteria per me è una cazzata quasi! Vedi? Perché? Perché magari io ho quella cosa…

Tra l’altro il rap che cos’è? Contrappunto ritmico su un beat, un genere che parte come una forma di percussione, in più poi devi avere un talento o un’inclinazione naturale a giocare con le parole, devi essere un comunicatore e devi essere uno possibilmente anche che conosce molte cose. Oppure un ignorantone però che sa disegnare qualcosa, l’ignorantone savant, il vecchio sul fiume di Siddharta. Non è che se non hai letto libri non puoi fare il rap, anzi, c’è un sacco di gente che si prepara molto. Cose che non c’erano ai miei tempi: io oggi mentre scrivo una strofa se mi viene una citazione me ne vado su Wikipedia, leggo la storia e ci faccio una rima apposta. Però in fondo è vero che tu hai un apparato vocale ed emettere le parole è più facile che fare un’armonia perfetta cantando.

Però se tu prendi uno con una voce della Madonna, un Baglioni, un Al Bano, e gli dici di fare una strofa di “In Linea” non riescono a farla, si perdono, si impappinano.
Quella è un’altra forma. A me piace fare l’avvocato del Diavolo, ora non ti sto dicendo il mio parere, però pensa anche che se ci fosse qui un purista della musica che ha studiato tutta la vita al conservatorio e mi mette uno spartito davanti, io chiedo se mi passa la Settimana Enigmistica… Non te lo so leggere lo spartito!

Ma a noi che ci frega dei puristi? Vieni pur sempre dal punk hardcore.
Dove è un pianeta, per te, dipende da dove sei tu. Capito cosa ti voglio dire? Ci sono delle cose che ti vengono facili, però ti impunti nella vita a fare qualcosa che per te era più difficile da fare. Io potevo essere un giornalista sportivo, poi ho deciso di seguire un trip più artistico. Però mi piaceva l’idea di fare il giornalista sportivo, e nel ’96 era una figata: ce n’erano pochi, andavo a beccare un’onda giustissima, e invece ho scelto la musica, con le vendite che andavano sempre peggio. Però non è che abbia davvero scelto la musica, la musica ha scelto me. Ho avuto la fortuna nella stessa vita di fare, male, le seguenti cose: suonare la batteria, cantare, fare il rap, produrre basi rap, scrivere canzoni, arrangiare per orchestra, fare colonne sonore… Non sapevo fare tutte queste cose bene allo stesso modo, l’importante però è averci provato. E ora io oggi so che la mia natura, per come ero cresciuto, per il tipo di famiglia che avevo, era quella di diventare un autore di canzoni, era quello cui ambivo nella vita. Quando è stato il momento di prendere una decisione rispetto alla creatività più matura da parte mia e dire “mi piacerebbe misurarmi con la scrittura delle canzoni”, la cosa è capitata un po’ da sola. Si vede che era il momento, nel momento in cui avevo le basi pronte per un altro disco rap invece mi uscivano le canzoni.

E poi semplicemente ho seguito sempre la mia strada di verità, e chiamala fortuna o sfortuna, per tanti anni non ho coinvolto grandissime realtà discografiche, non avevo un pubblico numeroso che mi metteva pressione, e quindi sono stato molto libero di creare, e ho assecondato sempre quello che mi veniva spontaneamente. Incredibilmente ma vero, a questo giro mi uscivano questi rap. E ti dico la verità: era scomodo per me come cosa, perché so che sarebbe stata confrontata con il passato, e avrebbe generato dibattito…

Il rap poi è un genere che ha dentro un elemento di gioventù. Una cosa che mi dimentico sempre di dire, ma che penso fortemente, è che siamo la prima generazione che vedrà i rapper vecchi. Prima abbiamo visto Mick Jagger e Paul McCartney, e adesso già cominci a vedere Dr. Dre… In Italia solo Jovanotti se si mette a rappare è più vecchio di me, nessuno è più vecchio di me. Ho fatto i conti. Anche in questo sono apripista con il frista (ride, nda).

Anche in questo disco torna il tuo grande amore per la musica partenopea in un pezzo rappato e cantato completamente in napoletano: cosa ti lega a quella tradizione musicale?
È una cultura musicale che basta a se stessa, come in Giamaica: tu puoi essere un artista di musica napoletana e non uscire mai da Napoli e tutta la vita fai il cantante napoletano. Quando la mia famiglia si è trasferita nel 1975 da Roma a Bologna è stata l’ultima volta che sono appartenuto a un vaso, da quel momento in poi sono sempre stato una pianta senza vaso. Perché tu strappi uno a sette anni, quando già parlava un po’ con l’accento romano, lo sposti, e quel bambino ha finito di avere un minimo di identità. Da lì sono diventato uno tutto frastagliato. A un certo punto un giorno, proprio nel periodo dei Sangue Misto, in casa trovai una cassetta di Murolo. Quando ho sentito quella roba ho capito il blues. Uno che cresce nell’Alabama, fa quella vita, mangia quel cibo, vede quei paesaggi, appena fa musica gli esce il blues. Se io ho mangiato il ragù, ho sentito i discorsi dei miei genitori, mi esce la fronna ‘e limone, quella è casa mia. Ho trovato questa cassetta e questa cassetta mi ha dato la misura di quello che io ero veramente. E in quel periodo stavo facendo i Sangue Misto. Infatti “il guaglione”…. L’ho capito adesso, pensa te! Da allora io ho cercato fortemente il legame con Napoli, proprio perché non appartenevo a nessun vaso e sentivo solo questo legame di sangue e artistico con i miei genitori, e quando mi è uscito il disco in napoletano ho imparato che ogni tanto faccio una musica e dico “questa è fatta per essere cantata in napoletano, senti che note”: qualcosa me lo dice.

Ti trovo abbastanza contento e soddisfatto, mentre rispetto alla tua carriera mi è spesso sembrato, anche leggendo molte interviste negli anni, che ti sia vissuto un po’ male i vari passaggi, come se non ti fossi mai sentito veramente capito.
Dovrei fare noiosi discorsi da addetti ai lavori. So bene di avere dato l’idea nel tempo di uno che non se l’è vissuta bene, però a volte nelle interviste c’è un lato della medaglia che i giornalisti non riportano. Se uno scrive “Neffa accigliato risponde” o “Neffa se la ride” già cambia il tono di una frase. Onestamente rispetto alla mia felicità ho avuto tante sconfitte e tante vittorie: ero un nessuno, ero l’ultima ruota del carro nella mia famiglia e sono diventato uno che ha potuto aiutare sua madre economicamente negli anni della sua vecchiaia, sono cose importanti per una persona, soprattutto per uno che era destinato al fallimento sicuro, mi ha fatto sentire uomo.

Quando faccio i bilanci c’è sempre da una parte un me insoddisfatto che dice “ma io potevo”: mi accorgo quando sento certi colleghi, mi sembrano delle stelle bianche, molta luce su di loro, altri invece devono lottare il quadruplo per avere la metà; mentre ho visto altra gente fortissima che continua a fare un pezzo ogni tre settimane, nessuno se li fila e i pezzi sono tutti belli, loro sono fatti per non incontrare esattamente le fortune del pubblico. Quindi da una parte mi son detto “non sono stato abbastanza bravo per essere pigro com’ero e lo stesso avere un successo”, ma in realtà a me non interessava molto il successo, mi interessava il dialogo, essere capito.

E poi per come sono fatto, per motivi psicologici – dovrebbe esserci uno psicologo per parlarne – io non amo deludere le persone, ma lo faccio costantemente. Allora anche quando mi sento dire “perché non hai fatto quello, io volevo quell’altro, perché hai smesso di fare il rap, perché non hai cominciato a fare la polka”… Scusa, non si riesce a fare contenti tutti. Però io ne soffro veramente, conosco colleghi che se ne fottono, io non sono così: se ci sono trenta persone contente e ce n’è uno che non è d’accordo io voglio parlare con quello, voglio sapere perché… Poi però dopo tutti questi discorsi lamentosi ho avuto molte sconfitte e molte vittorie, e in questo momento se mi spoglio di tutto mi resta una voglia di vivere che prima non avevo, e sto giocando alla vita con i soldi del banco. E io ‘ste cose le dico nelle interviste, se poi non le mettono è perché già partono con l’idea che vogliono che io dica che le cose non vanno bene: mi è successo anche in passato, varie volte, spesso c’è questo atteggiamento come se io avessi qualcosa di nascosto che vogliono tirare fuori. Ma la verità è che, se vuoi scavare, con me troverai una persona che da una parte è felice perché non aveva nulla e ha avuto la musica, e dall’altra uno che ha deluso tante persone, ha preso tante offese, ha preso tanta merda e non l’ha mai ridata a nessuno, se l’è tenuta e ha detto “faccio la mia musica”. E queste due persone convivono in me, non è giusto rappresentarne solo una.

La foto in copertina è di Alan Gelati.

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