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Nel Paese dei narcos selvaggi

Intervista con Patrick Winn, autore di Narcotopia, racconto del viaggio in uno dei più famigerati e meno conosciuti regni della droga: il narco-Stato Wa.

di Enrico Ratto

Da bambino, un gran numero di pomeriggi se ne è andato progettando un viaggio dall’Italia al Vietnam, a bordo di una Land Rover verde inglese e con una ruota di scorta bianca sul cofano, dotata di air camping dove trascorrere le notti. Tuttavia, le mappe mostravano un ostacolo proprio nell’ultimo tratto del percorso, quando ormai sembrava fatta: attraversare la Birmania. Quei confini erano ermetici, invalicabili. Ma il vero problema, scopriamo oggi leggendo Narcotopia, il libro del giornalista investigativo Patrick Winn, appena pubblicato in Italia da Adelphi (con la traduzione di Svevo D’Onofrio), è che non si trattava dei confini politici che immaginavamo. C’era di mezzo lo Stato Wa, uno narco-Stato non riconosciuto dal diritto internazionale, zona di passaggio tra le montagne, una nazione di tagliatori di teste schiacciata tra Laos e Thailandia, delimitata dai sentieri del contrabbando di oppio a dorso di mulo. C’è stato un periodo, all’inizio degli anni ‘90, in cui lo Stato Wa controllava l’85 per cento della produzione di papavero al mondo, e la Birmania era il più grande produttore ed esportatore di eroina del pianeta.

Patrick Winn – sarà ospite di Più Libri più Liberi a Roma dal 5 all’8 dicembre 2024, insieme a Roberto Saviano e a Giovanna Pancheri – è entrato nello Stato Wa, ne ha incontrato i fondatori e con questo libro ha alzato il velo su un’area del mondo che l’Occidente ha sempre ignorato. Una narrazione, quella occidentale, che ha letteralmente spremuto con le sue storie il Centro e Sudamerica, i cartelli colombiani e messicani, dove vero e verosimile si sono amalgamati per il nostro intrattenimento: la villa di Scarface e il zoo di Pablo Escobar, Michael Douglas attore coinvolto in Traffic e Sean Penn reporter speciale nella foresta messicana. Narco-storytelling. Quel che è certo è che per trent’anni gli americani hanno agito anche in un’altra area del mondo, hanno inviato nel Sud-est asiatico alcune delle migliori risorse di Dea e Cia, spesso in conflitto tra loro. La prima cosa che abbiamo chiesto a Patrick Winn è come sia stato possibile ignorare una porzione così importante della guerra al narcotraffico.

«I prodotti culturali del mio Paese, gli Stati Uniti, hanno un effetto massiccio sulle storie che il resto del mondo vede e consuma. I film di Hollywood tendono a concentrarsi sul Messico, c’è un po’ di attenzione per l’Europa, tutti negli Stati Uniti hanno visto i film sulle famiglie criminali italiane. Ma l’attenzione sul Sud-Est asiatico è stata minore, in parte perché è un’area lontana dal centro della guerra alla droga degli Stati Uniti, in parte perché, francamente, gli sforzi degli Stati Uniti per contenere il traffico di droga in questa zona del mondo sono falliti miseramente. Non c’è alcuna bella storia da raccontare, non c’è alcun film eroico da scrivere».

ⓢ Dici anche un’altra cosa: se arresti uno sconosciuto, non fai notizia. Ma se prima ti preoccupi di creare Pablo Escobar, quando poi lo arresti, hai in mano una grande storia.
È vero. La persona media non conosce i nomi dei trafficanti di droga nel mondo, a meno che qualcuno non glieli dica. Quindi, se vi dico che ho appena arrestato Joe Bananas, la risposta sarà: chi diavolo è Joe Bananas? Non ho mai sentito questo nome prima d’ora. Se però passo cinque anni a dirvi che Joe Bananas è il più malvagio e potente signore della droga al mondo, allora, quando lo prendo, tutto diventerà molto più eccitante. Questo aspetto è importante soprattutto per la Dea, che deve prestare attenzione alla narrazione perché, dopo tutto, deve dimostrare al governo che vale la pena finanziarla, che vale la pena aumentarle il budget anno dopo anno. E così l’agente della Dea intelligente giocherà a questo gioco. Il suo pubblico non è solo l’opinione pubblica globale, ma anche i membri del Congresso che finanziano la sua agenzia. Quindi, sì, la narrazione è una parte incredibilmente importante dell’essere un agente della Dea.

ⓢ Scrivi molto anche degli agenti Cia e dei loro errori. Sembrano avere sempre un orizzonte temporale di breve termine, usano le persone e i popoli come strumenti, sembrano non capire che ogni dieci anni la storia cambia e che le persone non saranno un tuo strumento per sempre.
La storia della Cia è una lunga storia di conseguenze non volute. La Cia ha spesso usato i trafficanti di droga perché sono molto bravi a muoversi attraverso i confini. Negli anni Settanta, nel Sud-est asiatico c’erano alcuni trafficanti in grado di mettere il naso nella Cina comunista, quando era estremamente difficile farlo. Quei trafficanti sono stati protetti dall’arresto perché erano strumenti utili, appunto. È bastato però lasciare che questo film si svolgesse per un po’ di tempo e poi, dieci o venti anni dopo, quei trafficanti di droga sono diventati più grandi e più potenti, la ragione è che non sono stati fermati quando era il momento di farlo.

ⓢ Un altro aspetto fondamentale di questa storia sono i confini. Conosciamo e i confini fisici e politici, ma in questo libro ci sono storie di confini invisibili, finanziari, culturali, territori informali di contrabbando e traffico.
Il confine invisibile più importante del mio libro è quello che contiene lo Stato Wa. Se si guarda la mappa, la Birmania sembra un unico Paese, in realtà non è così. Tra le montagne della Birmania c’è una nazione non riconosciuta dall’Onu, dove chi cerca di entrare viene respinto. Ma un ufficiale del regime militare del Myanmar, se cerca di andarci, apparentemente è nel suo Paese, giusto? E invece sarà respinto anche lui, perché il popolo Wa, la popolazione indigena che vive nello Stato, ha creato i propri confini, ha creato il proprio esercito, ha trentamila truppe a difesa di confini che ufficialmente non esistono.

ⓢ Parliamo di Saw Lu, leader storico di questo narco-Stato. Sei stato tra i pochissimi a conoscerlo, a incontrarlo e a parlare a lungo con lui. Aveva grandi progetti per il suo popolo, ma questa visione ha avuto anche bisogno di un sostegno finanziario. La storia che racconti è quella di una grande ambizione politica e culturale che finisce per reggersi su un sistema finanziario non etico.
Storicamente il popolo Wa, nel tentativo di difendersi dalle forze esterne, si è dedicato al commercio di droga. Servono soldi per comprare armi, per sostenere un esercito, per sostenere uno Stato. Saw Lu, un leader molto considerato tra il suo popolo, ha suggerito un approccio diverso. Se continuiamo a produrre droga, ha detto, saremo odiati dal mondo, soprattutto dagli Stati Uniti. Allora, perché non offriamo loro amicizia? Se gli Stati Uniti ricambieranno l’amicizia, ci aiuteranno a diventare uno Stato più moderno, ci aiuteranno a costruire scuole, ospedali, strade, e allora smetteremo di produrre droga. Quindi, in un certo senso è come se volesse chiedere agli Stati Uniti di pagare il suo popolo per non produrre più droga. Sembra un’idea folle ma, come ho appreso da Saw Lu e da persone della Dea, la cosa è andata molto avanti e si è quasi realizzata, anche se alla fine non ha funzionato.

ⓢ Durante i tuoi lunghi incontri con lui, ha mai avuto la sensazione che potesse manipolare i racconti di questa sua visione?
Beh, quando intervisto qualcuno, presumo sempre che stia cercando di manipolarmi. Tutti quelli che ho intervistato per questo libro sapevano che le loro parole sarebbero state scritte nero su bianco e che avrebbero influenzato l’idea che il mondo aveva di loro. Di sicuro, anche Saw Lu aveva il suo obiettivo, aveva la sua storia da raccontare. Il mio lavoro è consistito nell’ascoltare ciò che aveva da dire e, se c’era qualcosa di interessante per il libro, verificarla. Così ho trascorso molto tempo a rintracciare agenti della Dea e altre persone che lo conoscevano, e mi sono fatto raccontare la loro versione della storia. Fortunatamente, il più delle volte, le versioni corrispondevano. Solo in alcuni casi non è stato così, ma non credo che Saw Lu mi stesse mentendo, penso solo che fosse un uomo di settantacinque anni e che ricordasse i fatti in modo parziale.

ⓢ Quando ti immergi in Narcotopia puoi avere l’impressione di leggere un romanzo, in realtà si tratta di una storia vera. Come hai fatto a non oltrepassare il limite, a non trasformare queste persone in personaggi di fiction?
La chiamo saggistica narrativa, è estremamente difficile e, in realtà, non so nemmeno se riuscirei a farcela di nuovo. Ho dovuto parlare con Saw Lu per ore e capire la sua vita. Probabilmente, alcune delle storie che mi ha raccontato le aveva già condivise moltissime volte. E così le storie diventano dure come il cemento, si fissano nella mente. Voglio dire, sono consapevole che alcune storie mi sono state consegnate con un bel fiocco addosso. È stato mio compito andare da altre persone e assicurarmi che i fatti fossero andati davvero così, e per fare questo ci vuole molto tempo, ci vogliono anni.

ⓢ Questo libro è un grande labirinto morale, sia per il lettore, sia per te che lo hai scritto. Nelle ultime righe ringrazi tua nonna, dici che è stata lei ad averti dato un codice morale. Qual è stato questo codice che ti ha permesso di orientarti nella ricostruzione di queste vicende?
Vengo da una piccola città della Carolina del Nord. Mia nonna è cresciuta in una fattoria e ha completato il liceo, ma non ha mai frequentato l’università. È una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto, legge due o tre libri alla settimana. Ho semplicemente osservato le persone di Wa da questo punto di vista. Non c’è un’università nello Stato Wa, molti dei leader dello Stato Wa non sono bravi né a leggere né a scrivere, hanno completato solo la terza elementare ma hanno creato, in sostanza, il loro Paese. Noi possiamo starcene qui seduti e chiamarli signori della droga o branco di montanari o buffoni o in qualsiasi altro modo ma, alla fine, sono riusciti a fare qualcosa di incredibilmente difficile che nessuna persona stupida saprebbe mai realizzare. Il mio codice morale mi dice di non giudicare le persone in base al loro status nella società. Giudica le persone in base a ciò che sono in grado di fare.