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Stanno tutti recuperando Mo, e hanno ragione

Il comico palestinese Mo Amer interpreta una versione romanzata di se stesso attingendo dall’esperienza, politica e umana, della sua famiglia: nel 2022 era una serie di nicchia, quest'anno è una delle più guardate su Netflix.

Ho scoperto “Mo”, la serie Netflix che è un po’ palestinese e un po’ texana, nelle prime settimane del 2024, quando non avevo ancora iniziato a metabolizzare lo shock per l’orrore del 7 Ottobre e la mostruosità scatenata su Gaza. Come capita spesso tra noi Millennial geriatrici, gente che sarebbe affetta da abulia da divano anche in condizioni normali, in quel frangente reagivo allo shock non metabolizzato chiudendomi a riccio, leggendo libri e guardando serie TV che rispondevano a una combo particolare: un qualche legame con Israele e Palestina, da un lato, e dall’altro una distanza siderale dalle atrocità degli ultimi mesi. Cercavo un escapismo a metà, che mi riportasse a una dimensione perduta in cui le cose andavano male, ma nessuno immaginava che sarebbero andate così male. Leggevo Emile Habibi, Edward Said e Ari Shavit, guardavo Fauda, che mi ero sempre rifiutata di guardare quando la guardavano tutti, ché al tempo mi era sembrata un’accozzaglia di luoghi comuni e violenza gratuita, ma ora aveva qualcosa di consolatorio. 

Un comico, nato in Kuwait, emigrato negli Usa

Non so perché, ma mi venne l’idea di chiedere a una conoscenza internet molto avvezza di cultura pop americana se avesse uno show incentrato sull’esperienza musulmana negli Usa. Io ero rimasta ferma ad Aliens in America (2007), la sitcom figlia del clima post-Torri gemelle, e Little Mosque in the Prairie (2007-2012), che peraltro sarebbe canadese, insomma roba carina, però vecchia, e, duole ammettere, invecchiata male. Quello (a proposito, grazie Asad!) mi ha dato due consigli: Ramy, su Hulu, e Mo, su Netflix. In entrambe le serie c’è lo zampino di Ramy Youssef – che, incidentalmente, era anche lo spasimante buono di Emma Stone in Poor Things – però con una differenza. Mentre Ramy è interamente una sua creatura, un’autofiction che ruota attorno all’esperienza di Youssef, in Mo invece è l’altro co-creatore che fa la parte del leone, che dà il nome alla serie, interpretando una versione romanzata di se stesso e attingendo dall’esperienza, politica e umana, della sua famiglia: stiamo parlando di Mo Amer, dove “Mo” sarebbe il diminutivo di Mohammed, comico palestinese nato in Kuwait nel 1981 e immigrato negli Usa all’età di undici anni.

La storia di Mo

Mo, la serie di Netflix, nella sua prima stagione, che risale al 2022, è quasi interamente ambientata a Houston, in Texas. Il protagonista è un quarantenne palestinese che deve convivere, in ordine casuale, con: una mortifera tendenza a sabotare se stesso in modo spettacolare; essere un apolide in attesa di permesso di soggiorno e dunque di lavoro; avere una famiglia da mantenere, nelle persone di una madre anziana e un fratello nello spettro autistico. Mo ha una donna, che manco a dirlo è ispanica, bella, intelligente, innamorata, più giovane di lui e, soprattutto, dotata di uno spirito di autoconservazione infinitamente più sviluppato: basterebbe sposarla e tutti i suoi problemi evaporerebbero, perché Maria è cittadina americana, ha un buon lavoro e tutti gli strumenti per proteggere Mo da dolori e sbalzi d’umore, come in quella canzone che non nominerò perché associata a cover brutte. Ma, niente, Mo, che è meravigliosamente umano – nel senso che i tratti che lo spingono a fare le cose peggiori sono anche gli stessi che lo spingono a fare le cose migliori – ma niente, Mo ha un talento unico per fare cazzate e infatti manda tutto a puttane. 

Mo ha anche un avvocato, palestinese, una vecchia amica di famiglia, carina e sdolcinata, che sono almeno quindici anni che prova a fargli avere il permesso di soggiorno eppure non ci riesce, in larga misura perché neppure ci prova. Così Mo si trova un altro avvocato, che non è carina e sdolcinata ed è pure ebrea (ai suoi lui dirà che “è polacca”), però si sbatte e risolverebbe tutto, se non fosse per la capacità del protagonista a mandare tutto a puttane. La prima stagione, dove abbondano le droghe e gli affreschi su una Houston multietnica, si conclude con un fallimento così epico che ricorda i versi di un grande poeta: And this mess is so big/ And so deep and so tall/ We cannot pick it up/ There is no way at all!

Dalla nicchia alla Top 10 Netflix

Ed esattamente da lì, da quel guaio che è troppo grande, troppo profondo e troppo alto per uscirne fuori, che riprende la seconda stagione, uscita su Netflix a febbraio, in un contesto completamente diverso, mentre tutti gli occhi erano puntati sulla Palestina: se nel 2022 Mo era uno show di nicchia, nel 2025 si è assestato come uno dei più guardati su Netflix, almeno nella settimana dell’uscita della nuova stagione. A questo giro Mo Amer è in stato di grazia, tanto che riesce in un compito che ha dell’impossibile. Tocca moltissimi temi – dall’autismo del fratello, che nella prima stagione viene solo accennato e qui diventa centrale, alla caccia agli immigrati dell’America trumpiana, o quasi trumpiana – e riesce a farlo, miracolosamente, senza mai scadere nel didascalico. Mette tantissima carne al fuoco, come in un barbecue texano, senza metterne troppa. Non ti fa la lezione, ti racconta una storia, anzi tante storie che tutte insieme ne compongono una più grande. Il Sette Ottobre e Gaza rasa al suolo non si vedono, ma incombono come un’ombra triste e il perché lo si scoprirà nell’ultima puntata. Dicono che non ci sarà una terza stagione e, parrà forse strano, ma la cosa mi fa piacere: Mo è già quasi perfetta così com’è, la serie di cui si sentiva il bisogno, meglio non rovinarla con qualcosa di più, o di troppo, o ridondante. 

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