Cosa si prova a morire? Cosa si prova a morire? Cosa si prova a morire? È una domanda a cui il protagonista di Mickey 17, nelle sale italiane dal 6 marzo, non riesce a rispondere. Per lui, ormai, la vera paura non è più la morte, ma l’assenza di un vero sé. Fantascienza o realtà quotidiana? Mickey Barnes – interpretato da Robert Pattinson, un volto perfetto per questa condizione spettrale – muore e rinasce più volte come persona “sacrificabile” in una missione di colonizzazione spaziale (un proletario perfetto in fuga interstellare dagli strozzini che vogliono fargli la pelle – è ovvia la critica al potere del denaro, al consumismo e ai dislivelli sociali che ne derivano, tema centrale in qualsiasi film sudcoreano d’autore, da Parasite a Pietà della poranima di Kim Ki-duk; ma pur anche in Squid Game, per non spingerci troppo in là).
Ogni nuova di versione Mickey è identica alla precedente, con un corpo stampato in 3D grazie al riciclaggio dei rifiuti dell’astronave, in questo nuovo guscio vengono re-inseriti i suoi ricordi, il suo carattere, le sue esperienze, tutto salvato in un hard disk esterno. Ecco quindi far subito capolino, tra le pieghe della trama, il paradosso della Nave di Teseo: se ogni parte di una nave viene sostituita, è ancora la stessa nave? Se ogni nostra parte può essere sostituita, rigenerata, noi siamo ancora noi? Lacan direbbe che Mickey è un soggetto scisso, separato da sé stesso da un vuoto incolmabile. Se Mickey può essere riscritto come un file di backup, allora non è più nemmeno un soggetto nel senso tradizionale, ma un puro segno fluttuante, un’entità spostata da un corpo all’altro. Ogni nuova versione di Mickey crede di essere quella vera.
L’esame della coscienza di Bong Joon-ho
Arthur Koestler, nel suo Il fantasma nella macchina, affronta un problema fondamentale dell’evoluzione umana: il nostro cervello sarebbe un ibrido di strutture arcaiche e moderne, un’architettura piena di tensioni e instabilità, per questo la nostra coscienza, invece di essere un flusso unitario, sarebbe un pastiche di funzioni spesso in conflitto tra loro. Bong Joon-ho con Mickey 17 estremizza questo concetto: se la coscienza è già un’entità instabile dentro un solo cervello, cosa succede quando viene trasferita da un corpo all’altro? Se la mente è un fantasma in una macchina biologica, allora Mickey è un fantasma che salta di macchina in macchina, un’entità che sopravvive solo perché il sistema gli permette di esistere. Koestler ci avvertiva che la mente umana ha un difetto di progettazione che può portarci all’autodistruzione. Questo è il destino di Mickey: viene creato per essere sacrificato (su di lui vengono testati virus letali, vaccini, medicinali, cibi sintetici), la sua coscienza non gli appartiene più, è il prodotto di un sistema che lo replica per necessità.
Mickey, nelle sue diverse generazioni, non è solo uno schiavo del sistema ma il prodotto inevitabile di un sistema che trasforma la coscienza in una funzione biologica riciclabile. Inevitabilmente il pensiero va a Ghost in the Shell di Masamune Shirow, entrambe le opere si interrogano su cosa significa essere umani quando il corpo è per la coscienza solo un supporto intercambiabile. Mickey, con una memoria salvata in un’unità esterna con la forma di un mattone e potenzialmente infiniti corpi compostabili e riciclabili, chi è? È davvero ancora “sé stesso” o il senso di identità è sempre stato un’illusione narrativa?
Bong Joon-ho torna in territori a lui familiari, la fantascienza distopica come critica sociale, come già in Snowpiercer, Okja e The Host. Per l’autore è centrale la rappresentazione di un governo inadeguato e corrotto, mostri e apocalissi climatiche fanno da trigger per sottolineare come politiche autoritarie e miopi siano espressioni di un sistema che non è in grado di rispondere in maniera intelligente ai bisogni del popolo. La metafora non è mai sottile, è sempre esplicita, qui ancora di più che in passato. L’unico modo per lanciare il messaggio ancora più chiaramente sarebbe stato battezzare il fascista transumanista maestro dei media con il sogno di colonizzare un nuovo pianeta con una razza pura (interpretato da Mark Ruffalo) Adolf Trump; ad accompagnarlo, una fiera e sadica Melania Braun (Toni Collette, sublime come suo solito), in una follia a due condita da un esasperato fanatismo religioso, tale da farli sembrare dei novelli Jim Bakker e Tammy Faye in orbita («le salse sono la cartina tornasole di una civiltà», esclama lei, impettita).
Vittima del sistema e di se stesso
Bong Joon-ho riesce come sempre a non farsi schiacciare dall’assunto ideologico, dalla tesi. Lavora con le immagini e, soprattutto, con la scrittura, per lasciare spazio ai personaggi, caricaturali, grotteschi, eccessivi. In questo caos intergalattico si fa strada, debolmente, rigenerazione dopo rigenerazione, l’umanità – tenera e malinconica – di Mickey. Un eroe sfigato, sopraffatto, schiacciato, che non è solo una vittima di un sistema di sfruttamento ma partecipa attivamente al meccanismo che lo distrugge. È ingenuo, debole, disilluso, non solo accetta la sua condizione di “sacrificabile” ma la cerca. È la punizione esemplare che si impone, un plusgodimento, gode del suo annientamento perché non in grado di affrontare le ragioni della propria angoscia. Sarà proprio lui, però, a cambiare il paradigma dell’intero sistema, riappropriandosi della propria identità.
La svolta avviene quando più versioni di Mickey coesistono assieme, è il momento in cui l’ordine simbolico si incrina, mostrando l’abisso sotto la realtà. Il sistema funziona solo finché esiste un Mickey alla volta; appena ce ne sono due, l’intero meccanismo crolla. In un mondo in cui ogni incarnazione è sostituibile, ecco emergere la consapevolezza di non essere mai stati unici. Il Mickey di Bong Joon-ho incarna il soggetto lacaniano diviso tra corpo, identità e linguaggio, vive nel conflitto tra il Sé Immaginario (l’illusione della continuità del sé), il Sé Simbolico (il ruolo assegnatogli dal sistema) e il Reale (l’impossibilità di definire cosa significhi davvero essere “Mickey”). Il sistema ha reso il protagonista un non-individuo, un ingranaggio rimpiazzabile (e qui ci andrebbe una digressione sulla poetica di Leiji Matsumoto, Galaxy Express 999 e La regina dei mille anni; poi ancora un’altra su Serial Experiments Lain).
Doppio sogno
In questo viaggio spaziale in cui è vietato chiavare fino a nuovo ordine (si consumano troppe energie, meglio razionare), è l’amante clandestina di Mickey, l’agente di sicurezza Nasha Barridge (Naomi Ackie), a vedere subito la soluzione: accettare entrambe le nuove versioni del suo partner, il 17 tenero e impacciato e il 18 prepotente e risoluto, gioiosa al pensiero sporcaccione di una torre Eiffel con due Robert Pattinson. È lei, anche dietro la chiave della comicità, in un universo in cui l’identità dell’umano non ha più alcun valore, ad abbracciare la complessità, a comprendere il valore dell’estraneo.
Come il suo protagonista, il film stesso è scisso, un blockbuster con meno azione del solito, un film d’autore più didascalico del previsto, un film d’azione caratterizzato da un tono mesto, malinconico e ridicolo. È la complessità, questa, di un autore con la capacità (rara) di lavorare dentro e fuori i generi, rimodellando i confini a suo uso e consumo, riuscendo a far emergere anche in una pantomima fantascientifica un’umanità inaspettata. La sfida della satira ormai è riuscire a interpretare la realtà superandola, perché è la realtà ad aver scavallato il muro dell’impensabile, quasi impossibile inventarsi politici più ridicoli dei nostri, dittatori più avventati di quelli in carica.
Mickey 17 sembra volerci suggerire un antidoto all’alienazione dell’individuo postmoderno, immerso in un flusso incessante di avatar e identità digitali, che riducono l’essere umano a un’involontaria proiezione di se stesso. In un mondo dove le connessioni si fanno sempre più superficiali e liquide, l’incontro tra le due versioni di Mickey appare come un disperato tentativo di ricostruire una forma di autenticità, sottratta alla frammentazione dell’io nell’infinito riflesso delle realtà virtuali. Perché alla fine, gli alieni siamo noi.