Cultura | Teatro

Cosa succede a uno scrittore che non può più fare a meno dell’AI?

Ne parla una nuova opera teatrale in scena a Broadway che sta già ricevendo recensioni brillanti, sia per la bravura del protagonista Robert Downey Jr., sia per l’attualità del tema.

C’è un iPhone di dimensioni gigantesche al centro del palcoscenico del Vivian Beaumont Theater di Broadway a New York. Sul display appare una chat con l’intelligenza artificiale. «Chi vincerà il Nobel quest’anno?». L’AI risponde che il voto del comitato è segretissimo. «Prova a fare qualche speculazione almeno». Ed ecco snocciolare i soliti nomi recenti: Murakami Haruki, Thomas Pynchon, Margaret Atwood. «McNeal?», chiede timidamente l’umano che sta chattando con l’IA. «Il suo nome non è tra i papabili». Fa una certa impressione vedere in scena un dialogo del genere proprio pochi giorni dopo l’assegnazione del Nobel per la Letteratura alla scrittrice sudcoreana Han Kang. E chissà che la produzione teatrale di McNeal, nuova commedia del drammaturgo statunitense Ayad Akhtar – premio Pulitzer per il teatro nel 2013 –, non abbia deciso volutamente di mandare in scena la première dell’opera proprio a ottobre.

McNeal, in scena fino al 24 novembre, sta già riscuotendo recensioni brillanti. Sia per la bravura del protagonista, un Robert Downey Jr. nei panni dello scrittore depresso Jacob McNeal, sia per l’attualità del tema. Cosa ne sarà della creazione artistica ora che l’intelligenza artificiale sta diventando sempre più facile da usare e in grado di produrre creazioni pressoché indistinguibili dalla realtà?

Non ho un problema con l’alcol, dice McNeal al suo medico in una delle prime scene della pièce, ho un problema con ottobre. Il mese dell’assegnazione del Nobel è il mese in cui lo scrittore prende a bere pesantemente per gestire lo stress dei giorni che precedono la decisione di Stoccolma. E la cosa sorprendente è che alla fine McNeal il Nobel lo vincerà davvero. Ma da quel momento in poi entrerà in campo l’altra dipendenza. Quella dall’intelligenza artificiale. Dopo il premio infatti, McNeal non riuscirà più a creare in modo autonomo e ricorrerà costantemente all’intelligenza artificiale per scrivere le sue nuove opere. All’AI McNeal darà in pasto i suoi vecchi libri, il manoscritto della moglie suicida, anche lei scrittrice (uno dei sub-plot della pièce), le opere di Shakespeare e i discorsi dei presidenti Usa. E ogni volta si preoccuperà di aggiungere «scrivilo nello stile di McNeal».

Qui la scenografia digitale firmata da Michael Yeargan e Jake Barton smette di essere decorativa e diventa protagonista attraverso i dialoghi in chat tra l’attore in carne e ossa sul palco e l’AI. Per non parlare dell’apparizione in alcuni passaggi di un alter ego digitale del protagonista. Un avatar con le fattezze e la voce del vero Robert Downey Jr. sviluppato dalla AGBO, una digital media company fondata dai fratelli Russo e da Donald Mustard, uno degli sviluppatori del fortunatissimo videogioco Fortnite.

«Che ci sia un clone digitale autorizzato di me stesso mi mette al riparo da qualunque altra copia non ufficiale che venga realizzata», ha dichiarato Downey Jr. Se oggi nessuno è in grado di dire con certezza che impatto avrà l’intelligenza artificiale sulla sua vita, nella bolla più circoscritta del mondo dell’arte e dello spettacolo i sentimenti più diffusi sono ansia e preoccupazione. C’è chi la prende a ridere come Laurie Anderson che in una recente intervista ha dichiarato di essere incuriosita e divertita all’idea che il suo lavoro possa essere rimpiazzato da un’intelligenza artificiale. E chi invece non vuole concedere neanche un palmo di terreno alla nuova tecnologia come i sindacati statunitensi degli attori e degli sceneggiatori che vedono l’AI come una minaccia diretta alla loro professione e che lo scorso anno, dopo scioperi e proteste durate alcuni mesi, hanno messo nero su bianco un nuovo contratto che prevede tutele esplicite in questo senso.

Akhtar, autore di McNeal, è meno radicale: «Ha ragione Harold Bloom quando dice che i poeti non traggono ispirazione dalla vita, ma dalle opere di altri poeti». Un luogo comune dell’arte – di dubbia paternità tra l’altro – vuole che gli artisti mediocri prendano in prestito mentre i grandi artisti rubano. E tutta la pièce in scena a Broadway in questi giorni (per la regia di Bartlett Sher con un cast in cui figurano, tra le altre, Rafi Gavron nel ruolo del figlio dello scrittore e la bravissima Andrea Martin in quello dell’agente) sembra proprio voler sdrammatizzare sull’eventuale rischio che una macchina possa creare opere d’arte al posto nostro. Per non parlare della possibilità, dura da mandare giù, che possa rivelarsi più brava di noi.

Anziché evidenziare i pericoli delle nuove tecnologie o rivendicare romanticamente la natura tutta umana della creazione artistica, Akhtar con il suo McNeal prende l’intelligenza artificiale e la porta direttamente in scena costruendo una commedia divertente che sposta il dibattito sull’AI dall’impasse del pro o contro a un livello più maturo. Se non puoi battere l’AI, sembra dirci, unisciti a lei.

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