Attualità | Stati Uniti
Make cinema apolitical again: negli Usa nessuno vuole trasmettere M. Il figlio del secolo
Sembra che gli studios e i distributori, anche quelli che negli ultimi anni erano stati megafono di dissenso sociale e culturale, abbiano definitivamente rinunciato a esporsi politicamente.

Mentre in Italia solo le prime due puntate di M. Il figlio del secolo hanno raccolto in una settimana più di un milione di telespettatori, negli Stati Uniti nessuna piattaforma streaming vuole trasmettere la miniserie diretta da Joe Wright. Il regista britannico, plurinominato e premiato ai premi Bafta e Golden Globe, ha spiegato come diversi operatori di streaming statunitensi stiano mostrando riluttanza nel comprare la serie che, basata sul romanzo omonimo di Antonio Scurati, racconta l’ascesa al potere di Benito Mussolini e la nascita del fascismo in Italia. «C’è stato un produttore che mi ha detto: “Adoriamo lo show, però è un po’ troppo controverso per noi”. Scusate un attimo, quand’è che l’antifascismo è diventato controverso?», Wright ha raccontato in un’intervista con il Financial Times. A neanche due mesi dall’insediamento di Donald Trump nella rotonda del Campidoglio come nuovo presidente degli Stati Uniti, sembra che anche gli studios e i distributori, che negli ultimi anni si erano costituiti come megafono di dissenso sociale e culturale, stiano rinunciando ad esporsi politicamente.
Il figlio del secolo
Gli otto episodi di M., che in Italia ha debuttato su Sky e Now il 10 gennaio 2025, cercano di squadernare il racconto di quegli anni, tempi in cui «popoli smarriti» sono andati «verso idee semplici», dice il Mussolini di Wright. Dall’umorismo da mattatore spudorato e violento all’ambiguità morale e politica, il Mussolini di M. è un richiamo frequente alla geopolitica contemporanea: «Guardatevi intorno. Siamo ancora tra voi», dice il dittatore fascista in una puntata. Per Wright è chiaro il parallelismo tra il dittatore fascista e Trump, da un lato la strumentalizzazione del senso di abbandono dei veterani italiani della prima guerra mondiale e dall’altro lo sfruttamento della rabbia degli elettori americani «abbandonati» dalle precedenti amministrazioni.
Ma è soprattutto nella comunicazione politica fascista, muscolare e machiavellica, e che secondo Wright il nuovo presidente americano «ha reinventato per l’epoca moderna», che il paragone tra le due figure si sviluppa, per poi compiersi definitivamente nell’unica battuta rimasta in inglese nell’intera serie: «Make Italy great again», che Mussolini rivolge al pubblico verso la metà della prima stagione.
«Si tratta di un prodotto che spiega anche come la classe lavoratrice si muova a destra e che quindi nel pubblico statunitense di questo momento storico può provocare un senso di attualizzazione», spiega Giorgio Bertellini, docente presso il Dipartimento di Film, Televisione e Media dell’Università del Michigan, che ha dedicato gran parte della sua ricerca all’intersezione tra cinema, politica e rappresentazione del fascismo. «Con un film sul nazismo non ci sarebbe questo rischio, perché lo stereotipo dei personaggi nazisti come malefici e negativi è stato assolutizzato nella cinematografia statunitense», dice Bertellini. «Ma un personaggio fascista che, guardando in macchina, dice allo spettatore: “Vieni con me, ti faccio ridere e ti do accesso ai miei giochetti politici manipolatori, alle mie contraddizioni”. Beh, questo è molto più pericoloso».
Non solo M.
Se M. è appena uscita, altre produzioni potenzialmente “sovversive” hanno avuto difficoltà negli Stati Uniti. The Apprentice, pellicola del 2024 che racconta la carriera di Trump come imprenditore immobiliare a New York negli anni ’70 e ’80 e la sua relazione con l’avvocato Roy Cohn, ha ricevuto minacce di azioni legali ancor prima che la rielezione di Trump fosse ufficiale. Il film, diretto da Ali Abbasi, mostra infatti una scena in cui Trump assume anfetamine, un’altra in cui si sottopone a liposuzione e a un trapianto di capelli, un’altra ancora, probabilmente la più controversa, che lo ritrae mentre violenta la sua prima moglie, Ivana Zelníčková, sulla base di alcune dichiarazioni fatte durante il divorzio e poi ritrattate nel 2015.
L’investitore più importante del progetto, il miliardario Dan Snyder, dopo aver visto il film ha minacciato di distruggere la pellicola e di bloccarne l’uscita. Lo staff di Trump, definendo il film «disgustoso» e «diffamante», ha minacciato contenziosi legali. Così, nonostante attori noti e ottime recensioni, tutti i principali distributori e streamer hanno rinunciato a The Apprentice, finché la Briarcliff Entertainment, una società di produzione e distribuzione indipendente e con un budget decisamente ridotto, ha comprato il film.
Si è trovato in una situazione simile No Other Land, documentario del 2024 realizzato da un collettivo palestinese-israeliano e che mostra lo sfratto e la distruzione di una comunità nella Cisgiordania occupata da forze miliatri israeliane. Oltre ad una settimana di programmazione nelle sale di qualificazione agli Oscar a novembre 2024 e altre due uscite limitate, solo pochi cinema indipendenti hanno deciso di proiettare il film, nonostante la vittoria di numerosi premi internazionali, compreso quello al miglior lungometraggio documentario alla 97ª edizione degli Oscar. «È chiaro che ci sono ragioni politiche in gioco», ha detto al New York Times Yuval Abraham, uno dei registi del documentario.
Interessi politici ed economici
«Nei momenti di crisi politica, negli Stati Uniti c’è sempre stato chi ha cercato di gestire la sensibilità artistica tramite il potere politico centrale. Oggi però non esiste più una distinzione tra comunicazione politica ed economia, sono un tutt’uno pericolosamente fuso, aggravato dal prepotente controllo dei social media», spiega Giuliana Muscio, storica del cinema italiano e professoressa all’Università di Padova. Dietro alla mitigazione dell’enorme ostilità che Hollywood aveva manifestato, almeno tra il 2016 e il 2020, nei confronti del trumpismo potrebbe infatti esserci qualcosa di più oscuro: la paura per i propri interessi commerciali.
«Guardiamo i Ceo alla cerimonia per l’insediamento di Trump: c’erano Zuckerberg, Musk, ma anche Tim Cook, che possiede Apple TV+, e Bezos, che ha non solo Amazon Prime, ma anche il The Washington Post», ricorda il professor Bertellini. Negli Stati Uniti le principali piattaforme di streaming sono spesso parte di conglomerati mediatici più ampi, che includono anche importanti organizzazioni giornalistiche. Ed è proprio contro di loro che Trump ha imposto nelle ultime settimane restrizioni operative molto concrete. La piattaforma streaming Paramount+ ha ad esempio lo stesso Ceo di Cbs News, una delle principali organizzazioni giornalistiche negli Stati Uniti e contro cui Trump ha avviato cause per diffamazione, con richieste di risarcimento milionarie. Stessa sorte l’ha subita il media Abc News, gestito dalla multinazionale Walt Disney Company, che possiede sia la piattaforma streaming Disney+ sia, con partecipazione di maggioranza, Hulu. Anche Sky, che in Europa ha prodotto M., negli Stati Uniti è di proprietà di Comcast Corporation, che possiede però anche il servizio di streaming Peacock e il media Nbc News.
«Quindi ad oggi, se io fossi l’amministratore delegato di Hbo Max, saprei che se dessi visibilità ad film o serie controverse, ciò potrebbe avere delle implicazioni ancora più gravi di quelle già in corso per la mia emittente televisiva, che in questo caso è la Cnn», dice il professor Bertellini. «Ed è questo atteggiamento guardingo che sta stimolando gli streaming service a stare lontano da M., ma anche tanti altri prodotti e storie, che oggi rischiano di non essere raccontate».