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M ridicolizza Mussolini ed è la miglior condanna possibile

Marinelli interpreta un Duce cialtronesco, macchiettistico e senza scrupoli, umanizzandolo ma senza sconti.

di Davide Coppo

«Io sono lo sbandato per eccellenza», dice Benito Mussolini nel primo capitolo di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, ed è vero che quello che passerà alla storia come il Duce, faccione e mascellone di marmo, severo sguardo sui sudditi, naso spigoloso come l’architettura che accompagnerà il suo regime ventennale, è in realtà un eterno trasformista, un incerto, una bandierina che tira dove gli conviene. Dall’inizio, per sempre, fino alla fine.

L’evento televisivo del 2025 italiano è l’uscita di M. Il figlio del secolo in versione miniserie: distribuita da Sky Atlantic, prodotta da The Apartment, scritta da Stefano Bises e Davide Serino con Antonio Scurati, e girata da Joe Wright. Otto episodi che devono contenere quasi 900 pagine di romanzo e cinque anni che cambiarono per sempre l’Italia, l’Europa, il mondo: dal 1919, quando lo sbandato di cui sopra radunò un manipolo di reduci in una piazzetta sudicia (oggi bella, esclusiva, costosissima) di Milano, fino al 1924, quando quel manipolo – proprio quello – rapì e ammazzò il deputato socialista Giacomo Matteotti, inaugurando di fatto la dittatura del fascismo.

In M ci sono echi di una rappresentazione pop del potere che abbiamo già visto ne Il divo, per citare l’esempio più recente, ma la narrazione non è incentrata tanto sul fascismo e sulla sua evoluzione come movimento. Negli sport americani da qualche anno esistono le PlayerCam: telecamere che seguono non tutta l’azione, come si è sempre fatto, ma un giocatore soltanto, uno di quelli in grado di cambiare le sorti della gara. M fa questo con Benito Amilcare Andrea Mussolini: Milano prima e l’Italia poi sono soltanto lo sfondo, mentre in primo piano studiamo la mente, il faccione e la mimica di Benito Mussolini. Che troviamo a tratti detestabile, perché cinico e calcolatore, spietato e violento pur senza sporcarsi le mani, ma troviamo anche umano, umanissimo: perché indeciso, confuso, seduttore, ruffiano e traditore.

Un ragionamento che dobbiamo fare è: quanto fa bene al fascismo, questa serie? E quanto all’antifascismo? Io penso molto all’antifascismo, e soprattutto fa arrabbiare un sacco i fascisti. M dipinge Mussolini utilizzando l’arma del ridicolo, che è “empowering”, come si dice, e non quella dell’indignazione, che spesso è invece il contrario. Il Duce, per Bises e Serino, è prima di tutto un cialtrone, bugiardo e incoerente. E certo, un violento senza scrupoli: ma un violento pavido, sempre col manganello degli altri. Mussolini seppe nel 1919 riunire migliaia di sbandati, criminali e reduci sotto l’ombrello di una propaganda confusa, antipolitica e antiparlamentare.

Nel Programma di San Sepolcro, il primo dei manifesti fascisti, apparso nel giugno 1919, leggiamo proposte di abolizione del Senato, nazionalizzazione delle fabbriche, sequestro dei beni alla Chiesa, partecipazione degli operai al funzionamento dell’industria. «Siete più a sinistra dei socialisti», lo irride l’amante futurista Margherita Sarfatti. Cambierà tutto nel giro di pochi anni: il fascismo entrerà in Parlamento, il movimento diventerà partito (forse vi ricorda qualcosa), la Chiesa sarà un alleato fondamentale di quel fascismo, i sindacati saranno aboliti tutti tranne quello fascista, la borghesia e l’industria diventeranno la spina dorsale del regime. Solo in un elemento il Duce rimane uguale dal 1919 fino alla fine: l’ossessione per la rigidità, la disciplina, il terrore della mollezza e della liquidità: la democrazia paragonata a una  “palude”, il socialismo a una “marea”. Al quindicesimo minuto della prima puntata vediamo andare in stampa Il Popolo d’Italia con il Programma sansepolcrista, in prima pagina campeggia il titolo “Noi vogliamo”. Benito Mussolini dice: «Noi vogliamo. E quello che vogliamo lo perseguiamo fino alla morte, senza gli infiniti, flaccidi “se” e “ma”». Questa paura del liquido come elemento fondante del fascismo è tematizzata da Jonathan Littell, autore de Le benevole, nel libro Il secco e l’umido: «Tutti i pericoli assumono per lui [il fascista] due forme, intimamente connesse: quella del femminile e quella del liquidità, di “tutto ciò che scorre”».

Per tutti questi motivi questo Mussolini di Marinelli, ho pensato, può essere impegnativo da manovrare anche per un certo antifascismo. M costringe lo spettatore a impegnarsi nello sfidare l’empatia che rischia di nascere spontaneamente, a non farsi toccare dal lato più umano del nemico. È più difficile, insomma, odiare un istrione affabulatore e dongiovanni, anziché un nemico marmoreo, lontano e disumanizzato, con cui è impossibile ogni contatto umano. Quando Mussolini guarda in camera, rompendo la quarta parete (lo fa molte volte, forse troppe), quello è il solo momento in cui dice la verità; la dice a noi, e non la ammette mai ai suoi camerati, ai suoi avversari, ai suoi sottoposti. Ci dice di odiare l’uomo che è diventato, ci dice che è confuso, ci dice che è finito, lo pensa spesso perché la sua ascesa è spericolata ma incertissima. «Io sono il primo ad aver permesso la corruzione dei propri principi». Poi si fa vedere invece che gongola, che si imbroda dei successi arrivati, insperati, anche e soprattutto per i pasticci di una classe politica ed ecclesiastica allo sbando.

Oltre che il libro di Antonio Scurati, mentre guardavo la serie ho riletto una biografia forse più simile all’operazione-umanità di Bises e Serino: Mussolini. Il fascino di un dittatore, scritta nel 1989 da Antonio Spinosa e pubblicata da Mondadori. Anche qui c’è in primo piano Benito Amilcare Andrea più che il Mussolini tiranno. C’è il donnaiolo che, prima del sansepolcrismo, scriveva e musicava canzonette così: «Bimba non mi guardare / forse tu m’ami di un affetto serio / ma questo cor che tu sognano brami / è pieno di veleno». C’è l’istrione pateticamente melodrammatico anche nella proposta di matrimonio alla madre di Rachele Guidi, che era contraria all’unione. Mussolini le fece un’imboscata con la fidanzata, scrive Spinosa, «mise mano alla tasca della giacca traendone una grossa pistola. E, con tono melodrammatico, esclamò: “Se non mi date Rachele, qui ci sono sei colpi. Uno per lei, gli altri cinque per me”». C’è il provinciale arrivista che, quando i suoi redattori ancora socialisti all’Avanti! lo vedono indeciso su cosa fare con questa Prima guerra mondiale, intervento o neutralità, e gli chiedono cos’è che vuole lui, sbotta in romagnolo: «Me a voi cmandè!», io voglio comandare. C’è il giornalista che segue il vento che tira più forte, e che nel 1917 sottotitola Il Popolo d’Italia “Quotidiano socialista”, ma già nel 1918 sostituisce la dicitura con “Quotidiano dei combattenti e dei produttori”. Lo smaschera meglio di tutti una sua conquista, Angelica Balabanoff, ex segretaria del Comintern poi trasferita in Italia, prima delle sue amanti ebree (poi venne Sarfatti), che disse: «È un semplice poetino che ha letto qualche pagina di Nietzsche».

Il filo rosso di coerenza, l’unico, che attraversa tutta la vita e la carriera di Mussolini, è il ricorso alla violenza. M smonta anche il mito del fascismo sansepolcrino mezzo socialista e mezzo rivoluzionario e quindi più buono, puro o pulito di quello che invase l’Etiopia o l’Albania o si alleò con la Germania. Il fascismo fu molte cose, ma prima di tutto, sommamente e per tutto il ventennio, fu una banda di assassini. Picchiare e ammazzare non fu un errore giovanile, di foga, ma la chiave che aprì tutte le porte. Lo dice Margherita Sarfatti alla fine della stagione, alla vigilia delle elezioni del ’24: «Volere sempre di più, fino a prendersi tutto, con qualunque mezzo: questo è il fascismo». Lo stesso Mussolini, nella serie, ha paura degli squadristi: che gli rovinino i piani più politici con la loro sete di pugni e di sangue, che gli si rivoltino contro. Li chiama “cani”, li disprezza, ma gli servono per portare il suo messaggio a tutti, anche a chi non lo vorrebbe ascoltare. Loro uccidono, picchiano e silenziano, e il Paese si sente più sicuro. Il fascismo prospera sul terrore del socialismo, la borghesia avvicina Cesare Rossi come il Gatto e la Volpe avvicinano Pinocchio. Una delle scene migliori si trova nella seconda puntata, è una riunione del Fascio ormai sempre più popolata. Mussolini cammina tra due ali di gente, le due anime del fascismo. Da un lato le camicie nere, coltello tra i denti, mani sporche di sangue, pronte all’azione e all’omicidio. «Il mio popolo», dice lui. Dall’altro lato, i piccolo-borghesi spaventati dal caos, dal Biennio rosso, dal socialismo, che si rifugiano sotto l’ala della violenza nera, conservatrice. «Il mio nuovo popolo», dice Mussolini, «il popolo della paura».