Attualità | Libri

Niente di nuovo sul fronte Ferragnez

Selvaggia Lucarelli si è arrabbiata per il fatto che il suo Vaso di pandoro è stato snobbato da tutti. Ma il problema non è la pigrizia dei recensori: è che forse dei Ferragnez ormai abbiamo detto tutto e ne abbiamo avuto abbastanza.

di Laura Fontana

La copertina di Il vaso di pandoro – Ascesa e caduta dei Ferragnez di Selvaggia Lucarelli (edizione Paper First) si presenta come una storia di Instagram stampata su carta lucida, reinterpretazione del noto meme “Pensati libera”. La figura di Chiara Ferragni, di spalle, è stata solo abbozzata dall’artista Aronne Comai, che di solito disegna soggetti maschili (ha ritratto Lorenzo Bigiarelli, compagno di Lucarelli); lo sfondo è dello stesso grigio della tuta infame, e ci sono pennellate di nero, bianco e rosa, ma su tutti spicca il punto di giallo, la testa bionda coi boccoli di Chiara Ferragni. “Chiara, ti prego, girati, rivelami il tuo segreto”, ho pensato guardando la copertina, mentre ero ancora davanti all’edicola dove ero corsa la mattina dell’uscita per accaparrarmi la copia. Poi ho girato il libro e dietro c’era una foto a tutta pagina di Lucarelli, bionda coi boccoli. Sui suoi canali social, l’autrice ha lamentato una carenza di recensioni da parte dei giornali, benché il libro sia primo nella classifica Amazon da ben tre settimane. C’è da dire che pure Il fabbricante di lacrime è stato in classifica vari mesi, forse anni, prima che qualche collaboratore di Robinson se ne accorgesse e alla fine quando ne hanno scritto, non era tanto per il libro in sé, quanto per la performance crossmediale di strabiliante successo.

Vero che anche il generale Vannacci – che sono costretta a tirare in ballo in quanto scelto come pietra di paragone scelta dall’autrice – ha avuto le sue interviste su Repubblica. Ma il generale Vannacci era uno sconosciuto diventato famoso – famigerato, verrebbe da dire – grazie alle vie misteriose dell’autopubblicazione. Qui invece abbiamo di nuovo Chiara Ferragni, e di nuovo Selvaggia Lucarelli, che ripete il miracolo della moltiplicazione delle metriche. Ma quindi dobbiamo farne di nuovo una questione di performance? Di numerosità di recensioni, di views per Story, di Media Impact Value (la mitologica metrica social del matrimonio Ferragnez, citata nella prefazione di Serena Mazzini), di copie vendute, di primi posti in classifica?

Il vaso di pandoro non è Limonov di Emmanuel Carrère, né tantomeno L’Avversario. E Selvaggia Lucarelli non è neanche l’antagonista di Chiara Ferragni. Lei, Chiara Ferragni rimane un mistero insoluto, come il sorriso della Gioconda. C’è al momento un’influencer che ha ereditato il suo posto, una delfina della content economy? Se alla risposta devo pensare così tanto, già questa è una risposta, mi dico tutte le volte che rifletto sulla questione. Poi certo, si potrebbe parlare Alessia Lanza, la più carina della Generazione Z, Carlotta Fiasella, Federica Scagnetti, Emily Pallini. Ma, appunto, sono tutte emanazioni di Chiara Ferragni, le cuginette piccole che hanno già trovato la strada spianata e che quotidianamente devono impegnarsi per mantenersi in hype, ballando, cantando, sensibilizzando le audience su tutto un ventaglio di argomenti che va dalla pace nel mondo all’importanza di una giusta idratazione, schivando le parole per cui rischierebbero cancellazioni. Chiara Ferragni, al netto del pandoro e del peccato d’avarizia, della multa dell’Agcom, del boccolo biondo e dei piantini, dei 500 mila follower persi dalla shitstorm di dicembre, del linciaggio pubblico e della radioattività, rimane figura mitologica di cui ancora non abbiamo scoperto il segreto, il potere di attirare l’attenzione su di sé, il potere di polarizzare le audience, semplicemente rappresentando la sua esistenza, e forse ormai il punto aperto rimane solo questo.

Il libro di Selvaggia Lucarelli questo segreto non lo svela, ma ha comunque una sua utilità: è una prima cronistoria della saga Ferragnez. La prima parte, l’era “Diavoletta87”, è la più scarna, mentre è più corposa quella dal matrimonio con Fedez in poi, benché il giro di boa effettivo si rintracci nell’autunno-inverno 2018, quando a Riccardo Pozzoli si sostituisce Fabio Damato, che dà un’accelerata a quella che Lucarelli definisce «strategia di compensazione del privilegio». Tale strategia porterebbe a inserire sistematicamente nelle loro operazioni di marketing «l’impegno, il vittimismo, la beneficenza», in sostanza una buona causa da combattere. Certo, Lucarelli non è la prima che lo fa presente, lo aveva già detto Guia Soncini ne L’economia del sé (Marsilio, 2022). Scrive Soncini: «Il Natale del 2018 era stato il momento in cui Chiara Ferragni aveva inventato l’economia del sé, il culmine d’una ricerca che durava già da un po’ e che già dava molti frutti». Cita inoltre «la tirannia dell’eccezionalismo», il sentirsi sia vittime che speciali, e il fatto che Ferragni incarna «tutti quei prodotti che ci fanno da specchio, facendoci rendere conto di ciò che neghiamo ma in fondo sappiamo. Che siamo mediocri».

L’inserimento di una buona causa nei content online, comunque, non è nato con Chiara Ferragni, anzi si può dire che è stata un’evoluzione dell’umanità sui social media: nel giro di dieci anni i semplici flame (accapigliarsi su un’opinione) sono diventati shitstorm (anche dette “guerre culturali”, ma più vicine alle guerre ideologiche o di religione che a un dibattito); chi era fan di qualcosa è diventato uno stan (un tifoso, qualcosa di molto vicino al seguace di un culto), e gli influencer stessi, per non parlare degli “attivisti performativi”, sono diventati qualcosa di molto più vicino ai santoni e ai guru. Chiara Ferragni non si è che adeguata in quanto ancella dell’algoritmo.

Tornando a Il vaso di pandoro, Selvaggia Lucarelli sceglie un taglio che la dovrebbe porre fuori dal meccanismo che sta invece al centro della macchina Ferragni: propone una sua personale visione morale, dà consigli su come fare una beneficenza corretta, parla di come anche lei scelga talvolta di sottrarsi al giogo delle piattaforme, non postando cose della vita privata che sa per certo performerebbero. Però poi apro le sue Stories e trovo, giustamente, rilanci di lettrici che hanno letto il libro e che le hanno dedicato una storia, e subito dopo, la sequenza di Stories “salviamo i bambini”, e dopo ancora “salviamo i gattini”.

L’intento di darsi delle regole morali è encomiabile, ma il rischio non è quello di ricadere poi nello stesso meccanismo? Ci si salva veramente mai dall’algoritmo? Non è solo un nuovo modo di placare le nostre coscienze, la versione aggiornata del senso di colpa? Interrogo il pandoro in copertina ma neanche lui lo sa. Riguardo l’inchiesta, non ci sono nuovi elementi, tranne che Ferragni è un po’ tirchia e in ufficio ci andava molto poco (per tutto il tempo della lettura ho pensato al trend di TikTok “I’m just a girl”). Che lavorare nella Blonde Salad Crew non è quello che potremmo definire il lavoro dei sogni, ma neanche lavorare in qualsiasi agenzia di comunicazione milanese lo è (chi se lo ricorda il “MeToo delle agenzie”?). Che Fedez ha usato per anni esattamente lo stesso sistema della buona causa dentro al content per fare soldi e avere successo, ma nessuno se la prende con lui (non è vero che nessuno se la prende con lui, è che i fatti sono ancora in corso di svolgimento quindi una storicizzazione al momento non è possibile). Verso la fine però ci sono due preziose interviste: lì si intravede la storia che è ancora da scrivere (e speriamo che Chiara Ferragni la faccia scrivere a un J.R. Moehringer). Lì scopriamo che il profilo di Chiara è seguito da Chiara e basta. Non ha mai dato la password a nessuno.