Hype ↓

Lockout NBA, cosa succede

01 Agosto 2011

Dal primo luglio la NBA è ferma, chiusa, non operativa. Allo scadere del vecchio contratto collettivo è stato dichiarato il lockout in quanto, parole del vice commissioner Adam Silver: “il contratto collettivo appena scaduto ha prodotto perdite finanziarie per le nostre squadre”. La traduzione corretta di lockout è serrata, non sciopero; sono quindi i proprietari delle 30 squadre a “incrociare le braccia”, con il benestare di David Stern, commissioner della lega. È importante ricordare che negli Stati Uniti, a differenza dell’Italia, il diritto alla serrata è sancito dalla Costituzione. Il motivo del contendere è la ripartizione del denaro e la necessità di creare un modello sostenibile nel tempo per tutte e 30 le squadre. In altre parole, semplificando e scomponendo la questione in minimi termini: la NBA è un business da 4.2 miliardi di dollari in cui i proprietari faticano ad avere un profitto e anzi, perdono soldi molto facilmente. Il vecchio contratto collettivo prevedeva una ripartizione del 57% delle entrate (lorde) ai giocatori, ovviamente in stipendi. Quindi i contratti NBA vengono “aggiustati” a fine anno per arrivare a questa percentuale e in una stagione positiva come questa, le franchigie sono costrette a versare altri dollari oltre al contratto in essere. I proprietari offrono una cifra fissa per gli stipendi di 2 miliardi di dollari per le prossime 10 stagioni, l’associazione giocatori non la ritiene in linea con le previsioni di crescita della NBA (dal 3 al 5%) dei prossimi anni e con la nuova contrattazione al rialzo dei diritti TV nazionali del 2016.

Proprio in queste ore giocatori, lega e proprietari si incontreranno per un nuovo tavolo, la fumata bianca non è nemmeno quotata. Le parti cercheranno di calcolare le loro distanze e capire in che direzione muoversi per un accordo che molto probabilmente non arriverà prima di ottobre, con i giocatori decisi a non scendere oltre il 54%; infatti la maggior parte di loro è pagata da ottobre a maggio e fino a quel momento non perderanno un dollaro. Sul tavolo delle trattative c’è l’esigenza di rivedere il salary cap, il famoso tetto salariale di cui si sente spesso parlare a “casa nostra” come lo strumento in grado di salvare il calcio italiano. Del resto ogni italiano è il miglior CT della propria nazionale e, da qualche anno, anche il più abile dirigente in circolazione. Lo stallo NBA dimostra che non è sufficiente mettere un tetto agli stipendi per risolvere i problemi e, inoltre, la volontà dei proprietari è quello di trasformare il cap da elastico (soft) a rigido (hard). Oggi il tetto di spesa può essere superato in vari modi e il sistema di pesi e contrappesi pensato dalla NBA non regge più. Si vuole prima di tutto abbassare la percentuale del 57%, portandola a un valore simile al baseball (MLB) o al football americano (NFL), cioè del 50%, per poi passare a un formato rigido di cap proprio come in NFL, anche per garantire più equilibrio. L’ultimo lockout è datato 1998 e l’accordo si trovò soltanto il 7 gennaio 1999, stagione in cui si giocarono 50 partite in 4 mesi più i playoff. Ieri come oggi il motivo del contendere erano i soldi e anche questa volta i proprietari, che sono milionari con altri business, hanno il coltello dalla parte del manico. I giocatori stanno cercando di sfruttare bene le poche carte a disposizione e tramite stampa e new media (twitter, blog ecc..) fanno sapere di essere disposti a giocare all’estero. Grande bluff, solo chi è privo di vincoli contrattuali può giocare all’estero senza mettere in pericolo di annullamento il proprio contratto in essere con la franchigia NBA d’appartenenza.

Per i big il gioco non vale la candela visto che nessuna lega al mondo può pareggiare gli stipendi NBA. Non credete troppo ai tweet e alle news sui top player, valgono più o meno come i titoli di calciomercato in stile “Messi: voglio giocare nel Napoli”. Ad oggi l’unico big ad aver firmato con un club straniero è Deron Williams, playmaker che dovrà negoziare il suo rinnovo contrattuale con i Nets e quindi oggi non vincolato. Il basket NBA è un fenomeno globale, un prodotto facilmente esportabile e che può essere vissuto al suo massimo da ogni appassionato con una semplice connessione a internet e un portatile. In questi anni è stata data priorità al marketing e al taglio internazionale fortemente voluto da Stern, ma oggi la NBA è in stallo ben oltre le fredde cifre, i caldi dollari, gli ammortamenti e i bilanci complessi.

La politica di espansione ha portato nuove franchigie in mercati piccoli, in aree degli Stati Uniti o fino in Canada dove il basket non interessa. Ma anche dove la pallacanestro è quasi una religione, come per esempio in North Carolina, non si è tenuto conto di un mercato non adatto allo sport professionistico, ma esclusivamente legato alla realtà del college basket, dove risiedono le vere tradizioni e rivalità sportive americane. Questa politica miope di espansione, esclusivamente basata sul breve periodo, ha generato un abbassamento del livello del basket, un gioco annacquato, disperso talento e fatto ricchi giocatori di medio livello. Inoltre, il muro contro muro tra datori di lavoro e l’associazione giocatori genera interesse, ma il futuro della NBA si gioca sulla possibilità dei piccoli mercati di essere competitivi. Qui l’associazione giocatori non c’entra, è un problema complesso chiamato revenue sharing, cioè ridistribuzione dei proventi all’interno della stessa lega. I diritti TV nazionali ed internazionali vengono ridistribuiti collettivamente, viceversa gli introiti locali restano quasi esclusivamente a disposizione della franchigia che li genera. In NFL gli incassi di ogni singola partita (parcheggio, biglietto di ingresso, ristorazione ecc..) vengono così divisi: 60% alla squadra di casa e 40% alla squadra ospite; in NBA la squadra ospite si ferma al 6% e solamente sulla vendita dei biglietti. Le grandi aeree metropolitane ne traggono vantaggio, come i Los Angeles Lakers che riescono ad incassare quasi 2 milioni di dollari per ogni partita interna, mentre squadre di un piccolo mercato come i Milwaukee Bucks non arrivano a 500 mila dollari. In questi anni il divario tra team di livello e squadre in perenne ricostruzione è aumentato esponenzialmente, mentre Stern si è preoccupato esclusivamente di vendere il proprio prodotto all’estero e ha perso di vista la cosa più importante: il Basket. Senza quello, crolla tutto.

Leggi anche ↓
Presto potremmo vivere in un mondo senza tupperware perché Tupperware sta fallendo

Dialogo sulla famiglia omosessuale

Una conversazione libera tra due Millennial su matrimonio gay, diritti acquisiti e diritti da conquistare, vite da privilegiati e vittimismo social, militanze vecchie e nuove e prospettive per il futuro.

Un nuovo modo di odiare Milano

Sarà la crisi abitativa, saranno i tagli al trasporto pubblico, saranno gli strascichi dei primi mesi della pandemia, ma qualcosa è cambiato nel modo in cui la città percepisce se stessa.

Non sarebbe meglio dimenticare il nostro passato sui social?

Il caso dei tweet di Elly Schlein è solo l'ultimo di una lunga serie in cui una persona diventata famosa viene giudicata per vecchie cose scritte sui social. Ma siamo sicuri che sia giusto?

Elly Schlein, una millennial che piace ai boomer

La bolla lib-dem le si è schierata contro, ma lei ha vinto lo stesso anche grazie all'inaspettato sostegno degli over 70.

Così parlò Elly Schlein

Idee politiche, passioni culturali e incontri importanti: cosa diceva la neo eletta segretaria del Pd in un'intervista a Rivista Studio del 2020.