Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a gennaio in redazione.

di Studio

Francesco Piccolo – Son qui: m’ammazzi (Einaudi)
Io me le ricordo bene le antologie di scuola (e chi le può dimenticare). E mi ricordo a dire il vero anche i Reader’s Digest impilati nella libreria di mio nonno. C’era questa idea (che temo ci sia ancora) che si potesse capire la letteratura, o addirittura appassionarcisi, leggendo pezzi di libri uno dietro l’altro. Invece di dare allo studente o al lettore un libro in cui immergersi dall’inizio alla fine, si davano tanti pezzi di tanti libri diversi, perché probabilmente l’idea della scuola italiana è stata (è) dare più importanza alla storia della letteratura che alla letteratura stessa. E tuttavia le antologie servono. Servono quando, e se, nella letteratura siamo già immersi. Soprattutto se c’è un taglio, un’idea, da approfondire che non sia: capiamo la letteratura facendo storia della letteratura. Il caso del nuovo libro di Francesco Piccolo ne è un esempio piuttosto brillante. L’idea, il taglio, è l’intenzione di approfondire quanto la letteratura italiana sia stata permeata dal maschilismo e quanto, riflettendo il maschilismo della società, abbia ispirato altro maschilismo. Piccolo s’incammina così in un’altra tappa del suo viaggio penitenziale (ironicamente penitenziale, certo) nel maschile, con un passo meno narrativo delle tappe precedenti e più saggistico/critico. E che, proprio come le antologie scolastiche, abbraccia un periodo storico enorme, che va da Boccaccio a Starnone, passando per alcuni snodi fondamentali del maschilismo letterario, come quello proverbiale, che dà il titolo al libro, della Lucia dei Promessi Sposi davanti all’Innominato (e l’Orlando furioso e Il Gattopardo e Il giardino dei Finzi Contini e Una questione privata, etc.). Sono pagine ricche di rivelazioni, divertenti e soprattutto istruttive, così come vorrebbero essere le antologie che sono passate davanti agli occhi di tutti e che invece sono soltanto pallose. (Cristiano de Majo)

Rachel Cusk – Corteo (Einaudi)
Traduzione di Anna Nadotti e Isabella Pasqualetto
Su di me, come credo su tutti i suoi fan, Rachel Cusk esercita un misterioso, strano potere. A prescindere da quello di cui sta scrivendo, che sia una cena al ristorante o una mostra di arte contemporanea o un festival letterario o la presentazione di un libro (tutte situazioni che nella vita reale, il più delle volte, trovo abbastanza noiose), oppure quello che forse è uno dei temi che meno mi attraggono e incuriosiscono in assoluto (la maternità, nel bellissimo Il lavoro di una vita. Sul diventare madri), fa sempre sì che quella che sto leggendo, nel momento in cui la sto leggendo, sia la mia pagina preferita di sempre. Questo strano incantesimo si era verificato al massimo dell’intensità con la cosiddetta Trilogia dell’ascolto (Resoconto, Transiti e Onori) ed è tornato con Corteo, che parla di arte, creazione e femminilità (con un pizzico di morte disseminata qua e là). Qui, al mistero che circonda la perfezione della prosa di Cusk, si aggiunge quello contenuto nel primo capitolo, La controfigura, in cui ai pensieri di una donna che è stata aggredita per strada da una sconosciuta si alternano le riflessioni sulle opere d’arte di una serie di artisti e artiste, con un continuo e spiazzante cambio di voce narrante (prima persona, terza persona, ecc.). La prima parte del libro mi ha fatto pensare alla sensazione di “impending doom” di cui stanno parlando in tanti su TikTok (perlomeno nei miei Per Te), e cioè la sensazione che qualcosa di catastrofico e terribile stia per accadere. Vorrei rassicurarvi dicendo che l’angoscia e la dissociazione trovano pace nelle ultime pagine, ma arrivarci non è facile, è un libro che, anche se breve, si fa leggere lentamente. Mi ha sorpreso scoprire di essere d’accordo con alcune delle critiche che ha ricevuto sui giornali inglesi e americani (forse la stroncatura più cattiva – un po’ troppo cattiva, a mio parere – è questa del New York Times) e che si potrebbero riassumere così: troppe riflessioni ombelicali sulla creazione da parte di artisti e scrittori troppo privilegiati, una visione un po’ ingenua dell’arte, un momento storico in cui i problemi di coppia, i piccoli drammi famigliari e i tormenti artistici di una serie di creativi di successo non ci sembra così interessanti. Eppure, mentre lo leggevo, mi sembrava il libro più bello dell’universo. (Clara Mazzoleni)

S.J. Naudé – Padri e fuggitivi (Edizioni E/O)
Traduzione di Silvia Montis
Desidero fortemente che questo libro diventi un caso letterario. Ne sto scrivendo (qui), ne sto parlando ad amici e amiche, faccio il possibile. Un’operazione in scala ridotta di quelle che ogni tanto i giornali facevano, quando funzionavano, come fece Il Foglio con La versione di Barney di Mordecai Richler a inizio anni Duemila. Il motivo per cui sono convinto che tutti debbano leggere Padri e fuggitivi è che in nemmeno 200 pagine questo libro è un concentrato di letteratura esaltante come non se ne legge quasi più. Questa esaltazione che mi è presa nei pochi giorni impiegati a leggerlo è derivata principalmente dall’assoluta imprevedibilità della trama. Che non è distopica né fantascientifica, eppure prende, a ogni voltare di pagina, la direzione meno aspettata tra tutte quelle possibili. Già dall’inizio: vediamo Daniel, un giornalista e scrittore trentenne, benestante, triste e annoiato, conoscere in una galleria d’arte a Londra due uomini serbi. Ci inquietano, i due amici, con la loro aggressività implicita nelle voci potenti balcaniche, nei corpi muscolosi, nei vestiti tamarri. Temiamo il peggio per Daniel. Lui no, li invita a bere fuori. Fermati. No: li invita a casa. Ci finisce a letto. Il senso di pericolo non ci abbandona mai, e quando pensiamo: basta, lasciali andare, Daniel fa le scelte più inaspettate. Pensiamo: sbagliate. Nei giorni successivi, offre loro il suo appartamento. Poi andranno insieme a fare un inquietante camping in Germania, infine accetterà di seguirli nel loro fatiscente appartamento della periferia di Belgrado. Seguiremo poi Daniel in altre inspiegabili scelte di vita in cui Naudé esplode tutta la potenza del perturbante, un ingrediente che in letteratura si trova ormai raramente, e andare a vivere da un bizzarro cugino di campagna, un redneck solitario nell’ex Repubblica boera del Sudafrica centrale. Il motore narrativo è alimentato da una forza inspiegabile, una specie di destino testardo nel mandare Daniel alla deriva. A lui, d’altra parte, interessa poco tenere una rotta sensata. A noi rimane un’inquietudine a tratti anche divertita per tutto il viaggio, impossibilitati a immedesimarci, troppo paurosi per poterlo fare, ma affascinati da questa libertà. (Davide Coppo)

Sven Holm – Termush (Il Saggiatore)
Traduzione di Eva Kampmann

Ultimamente mi sono appassionato al fenomeno dell’ipernormalizzazione. La parola se l’è inventata l’antropologo sovietico Alexei Yurchak per descrivere la vita nell’Urss degli anni ’70 e ’80, quando tutti ormai avevano capito che il sistema non funzionava ma nessuno riusciva a immaginare un’alternativa. Alla fine i cittadini sovietici decisero che non potevano farci nulla e tanto valeva sforzarsi di credere davvero che tutto andasse benissimo: ecco l’ipernormalizzazione, che si può pure tradurre con la locura, «un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte». Ecco, immaginate di vivere in un momento storico in cui morte e distruzione sono dietro la porta di casa. Immaginate di stare in un mondo che gli esseri umani hanno brutalizzato a tal punto da renderlo ostile, l’aria irrespirabile e l’acqua acida. Immaginate di essere tra i pochissimi fortunati che, mentre fuori c’è la morte, possono impiegare il loro inutile tempo in una protettissima enclave a discettare di impiattamenti, playlist, arredamenti, attività ricreative. Immaginate di essere così “ipernormalizzati” da non trovare niente di strano in certe discussioni: un povero disgraziato che fugge dal mondo morto là fuori si trascina fino all’uscio di casa vostra, e voi ve ne state ore e ore a discutere sul da farsi. È il caso di aiutarlo? Non sarà pericoloso? Non sarebbe più umano porre fine alle sue sofferenze? È davvero una vostra responsabilità, la sorte di questo sconosciuto? Oppure: il governo del vostro Paese assume pose sempre più minacciose e autoritarie, e voi vi fermate a riflettere su quanto fascismo siete disposti a sopportare in cambio di essere lasciati in santa pace. Se questo mondo che ho descritto vi suona familiare è perché lo è, e la sensazione di malessere che provate a leggerne si chiama, appunto, ipernormalizzazione. Un mondo come questo e sensazioni come queste sono esattamente quel che racconta Sven Holm nel suo Termush, un classico della letteratura post apocalittica la cui prima edizione risale al 1967 (e che Il Saggiatore ha finalmente tradotto in italiano, mettendoci pure la postfazione scritta da Jeff VanderMeer per l’edizione Faber), ma poco cambia tra allora e oggi. A dimostrazione che le cose vanno male da un pezzo, sempre per le stesse ragioni e nella stessa maniera, e che probabilmente sull’atto di morte dell’umanità, alla voce “causa”, ci sarà scritto ipernormalizzazione. (Francesco Gerardi)

Immagine in copertina: “La partenza dei Promessi Sposi” di Michele Farioli.