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Lawrence Osborne, un alcolista in mezzo ai sobri

Il suo nuovo libro Santi e bevitori è un reportage scritto durante un viaggio di due anni in Medio Oriente, un brillante studio della sobrietà nell'Islam, ma anche un memoir malinconico e potente sul vizio del bere.

di Clara Mazzoleni

Ho iniziato a leggere Santi e bevitori, il nuovo libro di Lawrence Osborne, il 7 luglio, proprio il giorno in cui ho festeggiato il mio primo anno di sobrietà (con una manciata di “eccezioni”, che è un modo carino di dire “ricadute”). Mi ha deliziato, quindi, scoprire che comincia proprio a Milano, la città in cui vivo e dove il mio problema con l’alcol si è manifestato più violentemente rispetto ad altri posti in cui ho abitato (Londra e Roma, ad esempio). Nelle prime bellissime pagine, infatti, il nostro eroe, che come a volte accade nei suoi libri è lo stesso Osborne, si trova «nell’unico hotel 7 stelle d’Europa», il Town House Galleria, con vista sulla Galleria Vittorio Emanuele di Milano. Sorseggia un gin tonic da 40 euro, al quale seguiranno, ovviamente, molti altri drink. Trigger warning per chi è sobrio da poco o sta cercando di esserlo: sappiate che la descrizione di questo primo lussuoso bicchiere di gin tonic preparato dal cameriere secondo le istruzioni di Osborne – gin Gordon’s e «un’idea di scorza di lime» – che arriva annunciandosi con «una musica sommessa di cubetti di ghiaccio» e «un profumo che accarezza il naso come quello di un prato scaldato dal sole», e il cui sapore di «acciaio allo stato liquido, freddo» fa «tornare la serenità» – metterebbe a dura prova anche il fondatore degli Alcolisti Anonimi. Ed è solo uno dei tantissimi trigger disseminati tra le pagine del libro, una gioiosa, epicurea, ode all’alcol travestita da studio del concetto di sobrietà nel mondo islamico o, per dirla come il sottotitolo, un viaggio alcolico in terre astemie.

Quali sono le ragioni per cui nel mondo islamico l’alcol è così odiato, tanto da essere definito «una malattia dell’anima»? (spoiler: «perché altera il normale stato di coscienza, falsando ogni rapporto umano, ogni momento di consapevolezza, falsando anche il rapporto con Dio»). E da dove arriva, invece, l’attaccamento dei cristiani all’alcol, tanto da trasformare il vino nel «sangue di Cristo» (spoiler: dal culto di Dioniso)? Studiando la storia dei Paesi islamici in relazione al divieto dell’alcol, Osborne disegna una mappa che trasporta il lettore in luoghi ai quali forse, finora, non si era mai sentito così vicino: la città religiosa di Surakarta, Beirut e la bevanda nazionale del Libano, l’arak (un distillato all’anice che il poeta persiano musulmano Abu Nuwas descrive così: «color dell’acqua piovana, ma caldo dentro come le nervature di un tizzone ardente»), la valle della ‘Beqa coi suoi vigneti ai quali da un giorno all’altro potrebbe essere tagliata l’acqua (perché è tutto in mano a Hezbollah), Mascate, Islamabad, Istanbul, Dubai, El Gouna, Il Cairo.

La peregrinazione del protagonista è resa ancora più avvincente dalla sua ostinazione nel voler trovare da bere dove l’alcol è severamente vietato. Una ricerca dell’eccezione che più che un escamotage letterario è una necessità di sopravvivenza: lo capiamo subito, quando con nonchalance parla dei blackout e delle mani che tremano, che Osborne è alcolizzato (come sua madre, anche lei giornalista e scrittrice, e come suo suocero polacco, celebre violinista e direttore d’orchestra morto di cirrosi epatica a 44 anni: dolorose ma bellissime le parti in cui ci racconta del rapporto d’amore tra questi suoi parenti e l’alcol, così come delle sue prime ubriacature con la vodka quando era ancora praticamente un bambino).

E così il suo viaggio diventa un tour dei bar degli hotel di lusso per occidentali, che sono spesso stati obiettivi di attacchi terroristici kamikaze, ma anche nell’unico birrificio del Pakistan, la Murree Brewery di Rawalpindi, o la ricerca disperata, e miseramente fallita, di una bottiglia di champagne durante una prima ansiosissima e poi sorprendentemente appagante notte di Capodanno («il mio primo Capodanno analcolico dall’età di 13 anni») in Oman, in compagnia della sua fidanzata italiana Elena. In quest’ultimo caso Osborne ritrae alla perfezione le dinamiche che si sviluppano in una coppia di persone dipendenti dalla stessa sostanza, in cui la qualità, il ritmo e la profondità del tempo passato insieme, così come il sesso e la tensione erotica, sono profondamente legati agli effetti della droga, in questo caso l’alcol. Non ha paura di definire l’alcol una “droga”, Osborne, perché sa che lo è.

Uno dei tanti pregi di Santi e bevitori è proprio questa capacità di mantenere una perenne ambivalenza, esplorare il mondo degli astemi così come quello di chi vive una vita accompagnata dall’alcol: non solo gli alcolisti, ma anche quelle persone miracolate che sanno bere per il puro piacere di bere (una capacità che pare sia tipica degli italiani, sottolinea l’autore osservando la gente fare l’aperitivo a Milano) e non con lo scopo di ubriacarsi (o perlomeno non sempre). Santi e bevitori, per sempre affiancati «in uno spirito di reciproca incomprensione». Un’incomprensione talmente immensa che alla fine di questo viaggio l’amore di Osborne per l’alcol esce rafforzato: «Non si finisce mai al punto di partenza», scrive nel malinconico, potentissimo finale, «e in quei due anni di bevute in paesi che per lunga tradizione hanno bandito i piaceri corrosivi dell’alcol ho imparato ad amare il mio drink delle sei e dieci più di ogni altra cosa del mondo inanimato».