Secondo alcuni, il 4 maggio si è toccato uno dei momenti più alti della storia dell’hip hop, secondo altri si sarebbe trattato del giorno in cui il genere sarebbe morto. Ciò che si può dire è che abbiamo assistito ad uno dei dissing più violenti e influenti nella storia dell’hip hop. Una faida tra rapper che non ha precedenti. Fino a pochi giorni fa, Kendrick Lamar e Drake convivevano pacificamente nell’ecosistema dell’industria dell’intrattenimento americana. Qualcosa è cambiata però il 22 marzo, quando Kendrick Lamar ha attaccato Drake nel brano “Like That” di Future e Metroboomin. Dopo qualche settimana di riflessione, il rapper canadese ha risposto attraverso due pezzi, “Push Ups” – rivolta a più artisti – e “Taylor Made Freestyle“. Da lì, una escalation fatta di cinque brani in meno di dieci giorni. Accuse, insulti e illazioni che sono culminati, il 4 maggio appunto, in “Not Like Us” di Kendrick Lamar, una delle migliori diss track mai realizzate. Più che ad un dissing, ciò a cui abbiamo assistito è assomigliato ad una crociata. Lo scontro è avvenuto sul piano etico e politico: Kendrick ha voluto smascherare quello che lui ritiene un pessimo essere umano, non degno di essere eretto a simbolo dell’hip hop e della black culture. Il rapper di Compton ha quindi dato vita a una faida ideologica, che ha come obbiettivo minare l’immagine pubblica di Drake. «Non è una lite tra rapper, è una resa dei conti culturale», ha giustamente titolato l’Atlantic.
Kendrick attacca Drake sul piano dell’identità maschile e dell’appartenenza etnica. “How many more Black features ‘til you finally feel that you’re black enough?” dice in “Euphoria“, facendo riferimento alle tante collaborazioni di Drake con artisti neri, intese come una superficiale ricerca di legittimità. Nello stesso pezzo si esprime sull’utilizzo da parte del canadese della N-word: «We don’t wanna hear you say “nigga” no more». Infine: «No, you not a colleague, you a fuckin’ colonizer». Tutte queste dichiarazioni fanno riferimento al background familiare di Drake. Il rapper è figlio di una madre bianca ed ebrea e di un padre afro-americano. Dopo la separazione tra i genitori, è cresciuto con la famiglia materna. La messa in discussione dell’identità bi-etnica di Drake, e la conseguente accusa di appropriazione cultura, non sono una novità per lui.
A cambiare oggi è il fatto che affermazioni di questo tipo arrivino da Kendrick Lamar: non solo uno degli artisti neri più influenti degli ultimi quindici anni, ma universalmente riconosciuto come una delle voci più autorevoli della comunità, un intellettuale afro-americano il cui peso culturale va ben al di là della musica. Ne parlo con Naomi Kelechi Di Meo, scrittrice italiana afro-discendente. «Kendrick percepisce l’adozione da parte di Drake di elementi della cultura afro-americana come un’assunzione non autentica o superficiale, per nascondere una mancanza e ricevere riscontro da terzi; mentre Drake la vede come un omaggio ed esaltazione di una caratteristica culturale che indubbiamente gli appartiene… Siamo nel campo delle ipotesi e dei punti di vista soggettivi». Sulla messa in discussione dell’identità bi-etnica di Drake, aggiunge: «È una questione che può essere interpretata come un’affermazione della complessità delle identità razziali e dei loro contesti sociali. Tuttavia, se viene utilizzata da Kendrick per denigrare o mettere in discussione l’autenticità di Drake come persona non bianca, potrebbe anche essere considerata una forma di “colorism”, cioè la discriminazione basata sul colore della pelle all’interno della stessa comunità nera».
In tal senso potrebbe essere letta questa barra contenuta nel brano “Meet The Graham“: «Identity’s on the fence, don’t know which family will love ya – The skin that you livin’ in is compromised in personas». Kendrick qui, insinuando che Drake non sia amato da una parte della sua famiglia a causa della sua “identità in bilico”, fa riferimento al fatto che molte persone dall’identità etnica multipla o mista hanno vissuto forme di razzismo interne alla propria stessa sfera familiare, con ricadute a livello psicologico durature nel tempo.
A un piano che riguarda l’appartenenza etnica si interseca quello dell’identità maschile. Nella relazione con l’altro sesso e nel rapporto paterno Drake si sarebbe dimostrato un pessimo uomo, violento e assente. Kendrick non va per il sottile quando dice, sempre in “Meet The Graham”: «Him and Weinstein should get fucked up in a cell for the rest their life». In “Not Like Us” amplia le sue accuse ipotizzando che Drake abbia avuto rapporti sessuali con ragazze minorenni. Sono disseminate nei brani anche molte critiche sul fatto che Drake non sarebbe un buon padre di famiglia. «He a narcissist, misogynist, livin’ inside his songs – Try destroyin’ families rather than takin’ care of his own». Poi si riferisce direttamente, in due diverse strofe, prima al figlio riconosciuto, Adonis, e poi ad una seconda figlia che il rapper canadese avrebbe nascosto al pubblico. Come fosse una lettera, dice al primogenito: «Dear Adonis – I’m sorry that that man is your father». Sempre parlando con il figlio di Drake, in uno dei passaggi più sadici dell’intero dissing, Kendrick si propone come mentore del ragazzo: «Let me be your mentor since your daddy don’t teach you shit».
L’immagine che viene qui tratteggiata di Drake non può non far sorgere una domanda: ammettendo che queste accuse corrispondano a verità, come mai non sono state dette prima? La questione di genere nella scena hip hop torna quindi ad essere al centro del dibattito. Sull’argomento, Di Meo mi dice: «Sebbene l’accusa di misoginia e violenza nei confronti di Drake possa sollevare la consapevolezza sulle problematiche di genere nell’hip hop, bisogna considerare anche se questa contribuisca effettivamente ad una discussione costruttiva, se sia una critica che vada oltre le rime». Ad ampliare le discussioni sulla misoginia nel rap hanno contribuito le parole di Drake nel brano “Family Matters“, in cui il rapper canadese riporta la voce secondo la quale Kendrick avrebbe picchiato sua moglie. In molte hanno denunciato come queste accuse reciproche abbiano una grave mancanza: il punto di vista delle vittime, ignorate dai due rapper. Lo spiega l’editorialista del Guardian Tayo Bero: «Nel corso di questo aspro botta e risposta, hanno fatto delle donne, magari sopravvissute ad abusi sessuali, molestie o violenze domestiche, i danni collaterali del loro violento lancio di fango».
Oltre a controbattere alle accuse di Kendrick con ulteriori accuse di violenze, le risposte di Drake si sono via via indebolite nel corso del tempo. È apparso evidentemente spiazzato dalla profondità e dalla cattiveria espressa dal collega. In “The Heart Part 6“, l’ultima risposta di Drake fino ad ora, si è limitato a smentire le accuse del collega invitandolo a trovare conferme prima di parlare: «You gotta learn to fact-check things and be less impatient». Un punto interessante toccato da Drake riguarda invece la posizione di Kendrick su artisti con comprovate condotte violente nei confronti delle donne: «If you still bumpin’ R. Kelly, you could thank the Savior – Said if they deleted his music, then your music is goin’ too, a hypocrite». In questo caso fa riferimento alla minaccia di abbandonare Spotify che Kendrick ha fatto quando la piattaforma sembrava essere intenzionata a cancellare dal suo catalogo i brani di R. Kelly, condannato per crimini sessuali. Ciò che è mancato da parte di Drake è una risposta valida e argomentata sulle illazioni più pesanti che lo riguardano. «Molti nell’industria musicale, a torto o ragione, sostengono che Drake collezioni medagliette di autenticità grazie alle sue collaborazioni e prenda più dalla cultura quanto dia indietro», ha scritto Craig Jenkins su Vulture.
Questo dissing ruota quindi attorno ad una domanda: cosa significa essere “uomini neri in America”? Kendrick e Drake rappresentano, in questo senso, due modelli radicalmente opposti. La copertina dell’ultimo disco di Kendrick, Mr. Morale and The Big Steppers, lo ritrae in una casa spoglia con in braccio la figlia e alle sue spalle, seduta sul letto, sua moglie che allatta il secondogenito. Uno degli ultimi successi di Drake è invece l’album Certified Lover Boy, la cui copertina riporta dodici emoji di una donna incinta. Kendrick incarna la figura, che un tempo sarebbe stata del pastore, e che poi è stata rappresentata da militanti politici e personaggi pubblici, di colui che si fa portatore di riflessioni collettive che agitano la comunità. Drake è invece un individuo di successo, che si sente di far parte della comunità nera ma che non ne vuole essere in nessun modo un alfiere, il cui obbiettivo è godersi la vita di estrema agiatezza che si è costruito attraverso la musica.
Il primo vede il secondo come un uomo senza valori, senza una identità e senza una mascolinità valida. Il secondo vede il primo come un ipocrita e un moralista, una persona che si serve del suo ruolo nella comunità per mostrarsi migliore di com’è. Si tratta, nei fatti, di un dissing che risponde ad una duplice crisi identitaria. Da una parte c’è una messa in discussione trasversale dei modelli maschili classici, ormai percepiti come non più attuali dentro e fuori dalla comunità nera. Il rap – che come genere ha contribuito a rappresentare una iper-mascolinità tossica – risponde a questa sollecitazione attraverso un dissing tra due rapper che reciprocamente si accusano di essere dei pessimi maschi. Dall’altra parte viene, invece, raffigurato un dibattito tra i più accesi in America, quello sull’identità etnica, su come questa si manifesti e su cosa questa debba comportare a livello di responsabilità, soprattutto quando si parla di personalità pubblicamente rilevanti.
A discapito di ciò che dicono i detrattori dell’hip hop, coloro che lo vedono ormai totalmente svuotato di ogni significato sociale, questo dissing dimostra, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, che il genere è ancora in grado verbalizzare conflitti culturali di enorme portata e di sublimarli artisticamente. Stiamo assistendo infatti ad un dissing che parla della nostra contemporaneità nella forma e nella sostanza. In ordine sparso, sono parte di questa storia: l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, la fabbricazione di fake news, l’abuso di farmaci, le citazioni di Taylor Swift, i sospetti di pedofilia nelle élite, la cancellazione delle star da internet, i conflitti online che diventano reali. È molto di cui parlare, per un genere che si vuole vuoto, morto.
In copertina: un’immagine dal video di “Element” di Kendrick Lamar, diretto da The Little Homies e Jonas Lindstroem, ispirata a una famosissima fotografia di Gordon Parks.